giovedì 8 febbraio 2024

La vera storia di Redenzione, il film maledetto di Farinacci (fine)


Qualche mese dopo iniziano a circolare con una certa insistenza voci che mettono in dubbio la morte di Lino Milanesi. Voci talmente insistenti che spingono uno dei suoi amici, rimasto del tutto anonimo, a svolgere alcune indagini personali. Dopo la sua presunta morte, Milanesi sarebbe stato visto a Roma in un giorno imprecisato da Marcello Albani, il regista di “Redenzione”, che ora si fa chiamare con il suo vero nome, Giorgio Marchetto: era giunto con la propria auto davanti ad una casa dove doveva salire, ma un'altra auto era ferma davanti alla porta. Nello stesso momento in cui Albani scendeva dalla propria auto, dal portone usciva un signore diretto all'altra macchina, gli sguardi dei due si erano incrociati casualmente ed entrambi si erano riconosciuti. Milanesi aveva fatto solo un cenno di saluto poi aveva appoggiato un dito sulle labbra, intimando il silenzio, era salito sull'auto e si era allontanato rapidamente.In realtà ci vogliono oltre due anni a rimettere in discussione tutto quanto, quando alla fine dell'ottobre del 1947 un misterioso cremonese, garantito anch'esso dal totale anonimato, informa ilgiornalista, anch'esso anonimo, della “Provincia del Po” di avere incontrato l'ex gerarca. Si viene allora a sapere che in tutto questo tempo le ricerche di Lino non sono mai venute meno ed hanno interessato varie città. In effetti a raccontare i particolari sulla fucilazione è stato solo il settimanale “Oggi”, organo della federazione cremonese del Partito democratico del lavoro, nel primo numero del 30 dicembre 1945, con una tale dovizia di particolari da far supporre la disponibilità di fonti di prima mano. O forse proprio per tacitare i sospetti che circolano su un diverso epilogo dei fatti raccontati.

Il 28 ottobre 1947 è un martedì. Un cremonese si reca in un'altra città non ben specificata per affari, entra in un ufficio, si intrattiene a discutere con il titolare quando, ad un tratto, si spalanca la porta ed entra un personaggio che gli fa strabuzzare gli occhi. Anche il misterioso individuo gli lancia un'occhiata frenando a stento nel volto un certo disappunto. “E' lei signor Milanesi? Come sta?”, fa il nostro tendendogli la mano, non appena si è ripreso dallo stupore. “Sì, sono proprio io”, sorride il nuovo arrivato, stringendo a sua volta la mano che gli viene tesa, “E, come vede, sto benissimo. Era stato detto che mi avevano fucilato il 25 aprile a Bergamo, ma può constatare lei stesso che la notizia è falsa”. Non vi è possibilità di errore. Il cremonese conosce benissimo Milanesi, ed ha già avuto molte volte occasioni di avvicinarlo per il lavoro che l'ex gerarca svolgeva nella sua azienda di vernici e pitture industriali di via Bissolati. Lo riconosce immediatamente, anche se Milanesi si è fatto crescere un paio di baffi. Del resto lo stesso Milanesi non si nasconde minimamente, ed anzi una volta entrato in confidenza con il nostro, gli racconta la sua incredibile vicenda, premettendo, però, di aver fatto sempre il “doppio gioco”, non mancando di proteggere e difendere partigiani anche quando dirigeva l'UPI di villa Merli. A sostegno della propria tesi presenta allo sconosciuto una tessera di partigiano con la data del 4 febbraio 1944, firmata da Raffaele Cadorna, comandante generale del Corpo volontari per la libertà. E'evidentemente la stessa che aveva mostrato ai partigiani venuti ad arrestarlo nella sua casa di Bergamo Alta. Milanesi, dunque, inizia il suo racconto dal momento in cui, prelevato dal carcere di Sant'Agata, sta viaggiando in auto diretto al cimitero. Con i partigiani che lo stanno accompagnando sul luogo dell'esecuzione gioca la sua ultima carta, promettendo una consistente somma di denaro per la sua liberazione. I partigiani accettano e accompagnano Milanesi a casa di uno di essi, dove può cambiarsi d'abito svestendo il pigiama che ha indosso fin dal momento della cattura avvenuta il giorno prima. Il pigiama, probabilmente, viene fatto indossare ad un altro detenuto condannato a morte, che viene dunque fucilato al suo posto nel luogo prescelto. Qualche mese dopo si sarebbero presentati al cimitero di Bergamo la vedova ed altri parenti per chiedere il permesso di esumare la salma per trasferirla a Cremona dove, in realtà, avrebbe già dovuto essere recapitata, ma inumata invece in un altro comparto del cimitero bergamasco quando era già stata ormai chiusa in una cassa di zinco inserita in una bara di legno. Sui registri cimiteriali la tomba era indicata con il numero 102, tuttavia era attribuita a Riccardo Antonioli con aggiunto vicino, a matita “o Angelo Milanesi?”. Anche l'atto di morte allo Stato Civile era ambiguo: accanto al nome, scritto in matita, di Riccardo Antonioli, compariva sempre quello di Angelo Milanesi. Tuttavia non vi sarebbe stata alcuna possibilità di riconoscimento formale in quanto il volto era irriconoscibile, sia perchè crivellato di colpi, sia perchè ormai in avanzato stato di decomposizione. Unico elemento per avere qualche certezza di un riconoscimento sarebbe stato proprio il pigiama di cui, nonostante i mesi trascorsi a contatto con la salma che ne rendevano difficile distinguere con esattezza i colori, si era miracolosamente salvato un lembo della giacca che corrispondeva perfettamente a quello indossato da Milanesi al momento dell'arresto. Questo elemento, unito alla testimonianze raccolte tra quanti conoscevano o avevano assistito al fatto, tra cui quella del cappellano del cimitero, aveva convinto definitivamente i familiari sull'avvenuta esecuzione.


Il racconto di Milanesi, così come riferito dall'anonimo, coincide però solo in parte con la versione offerta qualche giorno dopo, il 4 novembre 1947, da un amico dell'ex gerarca che, a sua volta, afferma di aver effettuato ricerche per proprio conto. Sul camioncino diretto al luogo dell'esecuzione vi sarebbero stati due condannati, ma quando sarebbe giunto davanti al muro di cinta del cimitero uno solo di essi sarebbe stato fatto scendere e giustiziato. Poi i membri del plotone avrebbero tentato di infilare al cadavere i calzoni del pigiama di Milanesi, riuscendovi solo in parte, e si sarebbero poi allontanati facendo scendere l'altro condannato rimasto in mutande, che non sarebbe stato altri che Milanesi. Lino, che in quello stato non avrebbe potuto andare molto lontano, si sarebbe infilato in una stradina laterale, trovando aiuto presso una cascina dove sarebbe rimasto nascosto per una ventina di giorni, aiutato dal proprietario. Trascorso questo tempo si sarebbe dato da fare per trovare un lavoro recandosi prima a Torino, poi a Genova e da lì in Sardegna, dove si sarebbe fermato per qualche tempo. E qui le strade di Lino Milanesi e di Marcello Albani, divise al momento del grande litigio su “Redenzione”, si incrociano un'altra volta.

A Torino si è infatti trasferita la Marfilm, dopo il fiasco di “Redenzione”. Nel 1947 Albani dirige una società commerciale per il traffico del bestiame, con filiali a Milano e Genova. Ha girato l'ultimo film a Budrio nel 1944, che viene distribuito però nel 1946, a conclusione della guerra, e la sua attività si limita adesso solo a qualche collaborazione ai progetti registici della moglie. E' stato tagliato fuori dagli ambienti cinematografici per la sua dichiarata fedeltà al fascismo, dimostrata anche dal fatto di aver affidato la gestione della sua filiale di Genova al segretario di Farinacci Emanuele Tornaghi, sottufficiale della GNR, addetto all'UPI e personaggio di primo piano nelle indagini sulla banda Koch che figura latitante al momento dell'apertura del processo su Villa Merli nell'ottobre 1945.

Uno strano destino lo lega dunque a Milanesi che, secondo la testimonianza dell'anonimo cremonese che ne raccoglie le confidenze, si dedica anch'egli in quel momento al commercio del bestiame. L'anonimo ha anche altri particolari da raccontare sul misterioso incontro con Milanesi. L'ex capo di Villa Merli gli avrebbe confidato di aver seguito attentamente nei giorni della Liberazione le vicende del suo patrimonio aziendale, costituito da macchine, vernici, materie prime per la fabbricazione dei colori, pennelli conservati nei magazzini di via Bissolati, e dell'arredamento nonché degli abiti e della biancheria del suo appartamento, misteriosamente scomparsi dopo il 25 aprile senza che le autorità avessero svolto indagini accurate per conoscerne il destino.

Milanesi, nei giorni antecedenti la Liberazione, era sfollato a Grumello, da dove poi avrebbe raggiunto Bergamo. Pochi giorni dopo la sua presunta esecuzione, avvenuta il 30 aprile 1945, la sua abitazione era stata depredata da un gruppo di bergamaschi che si erano impadroniti di tutti i mobili e degli oggetti contenuti in casa, evidentemente informati di quanto contenesse l'appartamento. Forse era questo il prezzo pagato da Milanesi per la sua liberazione che, al suo interlocutore cremonese, racconta di conoscere esattamente le persone che hanno goduto dei suoi beni e spiega che da qualche parte esiste ancora un deposito di merce rimasta invenduta. D'altronde uno dei personaggi che meglio lo conoscono non hanno mai creduto alla sua morte.

Roberto Ferretti, ingegnere a capo del Raggruppamento Ghinaglia col nome di battaglia di “Carlo”, nominato questore dal CLN, ha frequentato Milanesi negli oltre tre mesi di detenzione a Villa Merli, dove era finito dopo la cattura a Milano il 30 dicembre 1944, prima di essere trasferito al carcere di Bergamo. Subito dopo l'insediamento Ferretti viene incaricato dal presidente del CLN, l'avvocato Francesco Frosi, di accertarsi sull'effettiva sorte di Milanesi. Si reca a Bergamo ma quando chiede che la salma venga riesumata per effettuarne il riconoscimento, gli viene negata l'autorizzazione. Ferretti chiede anche la consegna dei verbali dell'interrogatorio e gli viene consegnato un pacchetto legato con cura che egli apre solo successivamente, durante il viaggio di ritorno a Cremona. Si accorge allora che i documenti contenuti riguardano un'altra persona. I sospetti aumentano: Ferretti torna ancora a Bergamo, riprende le indagini ma non riuscirà mai a rintracciare chi avesse firmato la condanna a morte di Milanesi né, tanto meno, chi l'avesse effettivamente eseguita. In particolare Ferretti nutre sospetti su un ex tenente dei carabinieri che avrebbe fatto parte del plotone di esecuzione, ma non riesce ad accertare alcuna responsabilità a suo carico. Tuttavia, convinto sempre di più che Milanesi sia vivo, prosegue le indagini a livello personale, segue un pista che lo conduce a Macerata, e da lì in Svizzera, senza approdare ad alcun risultato.

Nel novembre 1947 si scopre, però, che vari componenti della Questura di Bergamo in servizio nei giorni della Liberazione sono finiti in carcere per reati contro il patrimonio. Come non collegarli al tentativo di corruzione fatto da Milanesi, e probabilmente anche da altri, per salvarsi la vita?

Nel novembre 1948 si assiste ad un nuovo colpo di scena. La sentenza del Tribunale che assegna i beni agli eredi dell'ex capo dell'Ufficio Politico Investigativo fa tornare attualità la vicenda dell'auto di Lino Milanesi, depositata in Prefettura, che ha già dato filo da torcere agli uffici legali. E' una Fiat 500 Topolino fuori serie del 1937 con alle spalle una storia molto particolare. In quell'anno la Perugina-Buitoni aveva lanciato un concorso di figurine aveva contagiato tutta l'Italia con una frenesia che non si sarebbe mai più ripetuta. Tutto aveva avuto inizio con un programma radiofonico, “I Quattro moschettieri” che altro non era se non un radiosceneggiato, volutamente comico, che portava in scena una versione piuttosto originale del capolavoro di Dumas, inserendovi vari personaggi che non avevano mai avuto a che fare con il classico della letteratura conosciuto, da Arlecchino a Stanlio e Ollio, da Pierino al suo amico Giorgio. La Buitoni-Barilla aveva deciso di sponsorizzarlo legandovi un concorso basato sulla raccolta di un centinaio di figurine distribuite all'interno delle confezioni di tutti i prodotti. Una volta completato l'album si poteva scegliere una serie di regali: un libro illustrato tratto dal programma radiofonico, un chilo di cacao Perugina, una scatola di cioccolatini, mandorle o caramelle Perugina, un pacco assortito di pasta Buitoni. Ma con centocinquanta album completi di figurine il premio sarebbe stato una fiammante Fiat 500 Topolino uscita l'anno prima.

C'era stato però un problema: a causa di un ritardo nella consegna dei bozzetti da parte del disegnatore della serie, Angelo Bioletto, erano stata stampate poche copie della figurina del “Feroce Saladino”, che era diventata la figurina più rara ed anche imitata dai falsari. La febbre delle figurine aveva contagiato ovviamente anche Cremona e ne era rimasto coinvolto lo stesso Milanesi che aveva incaricato un ragazzo, certo Renzo Micheli, di fare il giro di tutte le pasticcerie, acquistando intere partite di sacchetti di caramelle e cioccolatini contenenti le mitiche figurine, fino a quando non trovò l'agognato “Feroce Saladino” per completare gli album richiesti. Per poter avere un'auto differente da tutte le altre duecento di serie che, si racconta, siano state vinte in tutt'Italia, aveva versato una certa somma e l'auto gli era stata in effetti consegnata, con la targa 1668. Dopo la presunta esecuzione di Milanesi avvenuta a Bergamo il 29 aprile 1945, la Topolino era stata trovata a Soresina, sequestrata e messa a disposizione della Prefettura. Dopo qualche tempo si era fatto vivo un tale di Milano, che aveva rivendicato la proprietà dell'auto, dicendo di averla regolarmente acquistata da Milanesi, presentando un atto notarile del passaggio di proprietà.

Sarebbe stato tutto perfettamente regolare se, osservando l'atto, non si fosse scoperto che recava la data del 16 maggio 1945 quando, secondo la versione ufficiale, Milanesi era già stato fucilato da diciotto giorni: la pratica era stata dunque bloccata in attesa di accertamenti che, però, ancora nel novembre 1948, non sono ancora conclusi. O meglio, presentano aspetti perlomeno inquietanti. Ad ottobre, cioè un mese prima che la vicenda diventi di pubblico dominio, vengono recuperati frammenti che recano la firma autentica di Milanesi e messi a confronto con quella vergata sull'atto notarile. Viene riscontrata un prima anomalia: mentre il gerarca si firmava sempre nei documenti con il nome di “Lino”, sull'atto figura invece il nome di “Angelo”, inoltre sembra che tra la firma apposta sull'atto notarile e le altre autografe ricavate dai documenti vi siano notevoli differenze. Stando così le cose il notaio non si sarebbe accertato dell'identità del venditore, oppure sarebbe stato connivente, oppure ancora qualcuno della GNR, saputo dove Milanesi teneva la sua auto, l'avrebbe venduta fiutando l'affare. Impossibile dirimere la questione.

(3 - fine)

La vera storia di Redenzione, il film maledetto di Farinacci (2)

 


D'altronde Farinacci sa benissimo di non capire nulla di film, nonostante il suo ruolo di soggettista e supervisore, e di conseguenza lascia correre in vista di conseguire l'obiettivo. “Che Farinacci perdonasse – osserva malignamente l'articolista di “Oggi” - era logico. Egli, ormai, non viveva che per quella «sua» Redenzione e qualsiasi cosa gli attori gli avessero domandato, l'avrebbero ottenuta. La sua casa, che non era davvero ospitale, era aperta a tutti, artisti, regista,  personale di direzione. E di riflesso, le case di tutti i gerarchi fascisti erano schiuse a quelle persone. Le quali ne approfittavano e come... Erano venuti, in tanti, a Cremona quasi morti di fame; in pochi giorni si erano arricchiti. Erano giunti sconosciuti o quasi, si eran viste aperte le porte delle dimore più invidiabili. Chi li teneva più?“.

Fino a quando, dopo quasi quattro mesi di feste, pranzi e ricevimenti a casa Farinacci, qualcuno, sostenendo una fatica improba, prova ad insinuare qualche dubbio al ras, il quale, dopo aver ascoltato, presa carta e penna, scrive al ministro Pavolini per aver qualche informazione su chi sia effettivamente Albani, questo astro nascente del cinema italiano, ed uno dei più assidui frequentatori della sua casa insieme alla sua moglie romana, oriunda cremonese. La risposta del ministro non si fa attendere. Arriva un telegramma firmato dallo stesso Pavolini, che, a proposito del regista, lo definisce: “sedicente avvocato, sedicente giornalista, sedicente (pare un sogno!) ambasciatore d'Italia ad Atene, era stato condannato a due anni di reclusione per maltrattamenti alla legittima moglie ed abbandono dei figli”. Farinacci è indignato e si lascia andare ad una delle sue proverbiali sfuriate: convoca Milanesi e gli chiede urlando se quella era davvero una persona da portare a Cremona, a casa sua! Milanesi si difende come può spiegando che a suo tempo non aveva avuto né il tempo né i mezzi per informarsi ed, in fondo, ribatte, era colpa di Farinacci se aveva atteso tutto quel tempo per assumere notizie al suo riguardo. Farinacci risponde per le rime: scaccia Milanesi ed ordina ai portieri del giornale e della Federazione del fascio di non permettergli mai più di presentarsi a lui.

Milanesi è avvilito, non avrebbe potuto ricevere un colpo peggiore di questo alla sua credibilità. Il suo rapporto con il ras, a cui è sinceramente affezionato, è irrimediabilmente incrinato. Oltre tutto non va più neppure d'accordo con gli altri colleghi dell'amministrazione e con lo stesso regista del film che, intuisce, vogliono liberarsi di lui al più presto. La sua lite con Farinacci rischia di recare un danno enorme alla produzione ed, in qualità di direttore, ha mostrato tutti i suoi limiti. Senza invitarlo i soci convocano una riunione del consiglio di amministrazione nel corso della quale gli revocano il mandato e gli propongono di cedere il suo pacchetto azionario. L'assemblea straordinaria della Marfilm, convocata l'11 maggio 1942 nella sala del Teatro Ponchielli, ratifica le dimissioni dell'amministratore unico e la nomina di uno nuovo, e approva il trasferimento della sede sociale da Roma (via Crescenzio, 69) a Cremona. (Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, foglio delle inserzioni n. 99, 25 aprile 1942 -XX). Milanesi non sarà stato certo un granchè come direttore di produzione, ma indubbiamente ha un certo fiuto per gli affari. Da tempo ha capito che la Marfilm non naviga in buone acque, e, dopo aver nicchiato per un poco, accetta l'offerta di cedere il proprio pacchetto di azioni: le aveva pagate 300 mila lire e le rivende con un premio di 60 mila, prendendo in aggiunta altre 50 mila lire per il suo compenso di direttore di produzione. Intasca il tutto e se ne va.

Intanto la lavorazione del film procede tra le schioppettate, con litigi tra artisti e regista, tra tecnici ed ispettori, tra comparse, mentre la casa di distribuzione Artisti Associati, deve decidere come collocare la pellicola a Cremona ed a quale sala cinematografica dare la preferenza. La discussione è animata ma, alla fine, si decide salomonicamente di non scontentare nessuno e proiettare “Redenzione” contemporaneamente in tutti e quattro i cinema cittadini. Restano da definire i tempi della programmazione: c'è chi sostiene che siano necessari almeno quindici giorni per promuovere degnamente il film, altri, più ottimisti, pensano ad un mese intero. Il rappresentante della casa noleggiatrice tratta direttamente con Walter Sacchi per il “Politeama”, che, molto diplomaticamente, spiega: “Io da mesi non sognavo che proiettare nel mio teatro la vostra Redenzione. Vi assicuro che il pensiero che altri l'avessero, e io no, non mi faceva dormire. Direte che sono invidioso, ma cosa volete...Ma ero tanto lontano dal pensare che mi faceste una offerta così gradita che...Debbo pur dirvelo: per sei mesi almeno ho tutte le date occupate, sia con pellicole (e questo non importerebbe niente, perchè si potrebbe sempre spostare) che – ed ecco il male – con compagnie teatrali e di varietà che mi farebbero pagare fior di penale...Quindi è con il cuore in gola che debbo rispondervi che proprio non posso...”.

Non resta che iniziare il giro delle altre sale cinematografiche. Tocca al Supercinema dove la proposta è preceduta da un lungo preambolo: “Vede come Sacchi non sa fare i suoi interessi? Piuttosto che pagare una penale, ha preferito rinunciare a tanto affare!”. Ma il risultato non è differente: «Ma perchè non me l'avete detto prima? - risponde una delle sorelle Ferrari – Sono dei mesi, ormai, che questo film si gira. E dopo tanto tempo, io non speravo più di avere una proposta così lusinghiera. Pensare che per settimane e settimane non ho atteso niente altro...Ma, voi mi capirete...Debbo anch'io pensare ai miei interessi...Per l'epoca nella quale voi sarete pronti, io ho dei contratti assolutamente inderogabili. Capirete...film di prima visione assoluta...Se perdo quelle date, quando mai potrò tornare a programmare? Quando li avranno già proiettati in tutta Italia».

Restano solo altre due possibilità. Ma anche Anita Calza, gestore dell'Italia, declina la proposta di programmare “Redenzione” per ben due mesi. «Fosse vero! Ma come vi par possibile proiettare un film di tanta importanza in un locale relativamente piccolo...Noi saremmo tanto lieti di lanciare Redenzione, ma abbiamo paura che per noi l'onere sia troppo grave». «Ma se avete proiettato dei colossi, ma...», «Non c'è ma...E' proprio così...». Non resta che il cinema Littorio (poi Roxy e Tognazzi), dove Redenzione va in scena a partire dalle 15 del 28 ottobre 1942; il Supercinema ha in programma “Scarpe grosse” con Amedeo Nazzari e Lilia Silvi, all'Italia danno “Appuntamento alle cinque” con Michael Bartlett mentre al Politeama Verdi c'è una rivista di avanspettacolo.

All'indomani il “Regime Fascista” parla ovviamente di un grande successo, anche se la recensione è confinata nella piccola rubrica degli “Echi di cronaca”: “Alla presenza di un foltissimo pubblico è stato ieri presentato, vivamente atteso il film Redenzione che, per la notorietà della trama (ricavata dal dramma di Roberto Farinacci) e per essere stato «girato» interamente nella nostra città, ha destato il più vivo interesse, ottenendo un caloroso successo anche per merito degli ottimi interpreti numerosissimi, fra i quali Carlo Temberlani, Vera Carmi, Mario Ferrari, Camillo Pilotto, Bella Starace Sainati, Aroldo Tieri. Regìa di Marcello Albani. Da oggi Redenzione inizia le repliche”. In realtà sulle repliche non si è deciso nulla: scartata l'ipotesi di limitare la programmazione ad un mese, il film resterà in sala finchè lo richiederà il pubblico.

In effetti allo spettacolo serale si presenta una folla enorme. Che urla, ride e lancia frecciate perchè, per un errore avvenuto probabilmente in fase di ripresa, alcune scene sono state girate con un passo accelerato, cosicchè anziché camminare, come sarebbe logico, i personaggi saltellano con un involontario effetto comico, tanto che il pubblico urla: “Guarda Ridolini!”- Il pubblico poi sa, per averlo letto sul giornale, che sono state girate scene con protagonisti sovversivi rossi che cantano in coro “Bandiera rossa”, e gente è curiosa di vederli. L'attesa è tanta ma è destinata a rimaner frustrata: il Ministero dello spettacolo ha tagliato proprio tutte quelle scene che facevano in qualche modo riferimento agli oppositori. Come quella dell'incendio della cascina fatta costruire in riva al Po dall'architetto Sandro Marzano appiccato dai comunisti, per assistere alla quale i cremonesi si erano precipitati in massa sul set domenica 3 maggio, attirati dalle fiamme che divampavano in cielo. Ma produttori e noleggiatori si fregano ugualmente le mani: l'incasso della prima giornata di programmazione è enorme e fa ben sperare per il futuro. La sera successiva ad ogni buon conto il cinema Littorio è presidiato dai Carabinieri per evitare resse e tumulti, ma quando si aprono le porte entra solo un piccolo gruppo di spettatori e qualcun altro alla chetichella, senza dar troppo nell'occhio. La terza sera è un fiasco completo, in sala c'è solo il personale di servizio. La quarta sera il film viene tolto dalla programmazione e da quel momento di Redenzione non ne parla più nessuno.

Lino Milanesi? Dopo la sua estromissione dal consiglio di amministrazione della Marfilm viene accusato di essersi impadronito del legname occorrente per le scenografie del film. Era accaduto che durante le fasi della lavorazione sul palco del teatro Ponchielli era stata posizionata una sega circolare e Milanesi aveva inviato dal proprio stabilimento di via Bissolati una piccola quantità di assi di legno per ricavarne delle listelle con cui realizzare imballaggi per la propria azienda di vernici. Ma qualche operaio aveva sostenuto che Milanesi si fosse in realtà servito del legname della produzione per i propri usi personali. Alcuni membri del nuovo cda, al corrente del furioso litigio avuto dall'ex direttore di produzione con Farinacci, avevano approfittato dell'occasione per ingraziarsi il ras denunciando l'ex sodale per furto. Tuttavia Farinacci ha ancora bisogno di Milanesi e, smaltita la rabbia, lo manda a chiamare alla sede della Federazione del fascio, e gli dice: “Ho sentito che c'è una denuncia contro di te. Se riesci ad uscirne sano e salvo, torna subito da me. Ho da affidarti una carica che ti conviene”.

Milanesi si mette al lavoro per smontare l'accusa, si apre l'istruttoria, vengono interrogati accusatori ed accusati, sentiti i testimoni e alla fine viene dichiarato il non luogo a procedere per non aver commesso il fatto. Farinacci, subito informato dell'assoluzione, manda di nuovo a chiamare Milanesi e gli illustra l'incarico che intende affidargli. Si tratta di costituire un nuovo ufficio in cui fare confluire tutte le notizie sul conto degli antifascisti e, quindi, con il compito di reprimere  sul nascere qualsiasi iniziativa contraria al regime. Ufficialmente deve trattarsi di un semplice ufficio di collegamento tra la federazione e la milizia, in realtà si tratta del tristemente noto Ufficio Politico Investigativo con sede, prima nella caserma Muti, e poi dal 1944 nella villa Merli.

Proprio il ruolo avuto da Lino Milanesi a Villa Merli è al centro del giallo riguardante la sua morte che per anni ha tormentato i cremonesi. Ed a suscitare i dubbi sulla sua fine è proprio Marcello Albani, quel regista venuto da Roma così inviso a Pavolini. 

L'Ufficio Investigativo Politico della Guardia Nazionale Repubblicana è alle dirette dipendenze del colonnello Luigi Tambini, comandante della GNR, più conosciuto con il nomignolo di “Bigio” che ne affida il comando al più anziano della milizia, Lino Milanesi. L'ufficio gli viene affidato nel 1942, ma Milanesi ha sempre svolto attività investigativa, fin dai tempi del primo fascismo e nel tempo è riuscito a costruire una rete di spionaggio in grado di fornire tutti gli elementi utili all'arresto ed alla condanna al carcere e al confino degli antifascisti. E' profondamente convinto della vittoria finale dei tedeschi ed a chi gli fa notare che ormai gli alleati hanno preso il controllo su tutti i fronti, risponde con un sorrisetto carico di sottintesi “Farinacci mi ha detto...”. Evidentemente, come ormai si sussurra, culla la speranza che a risolvere il conflitto siano le famose armi segrete di cui la Germania sarebbe in possesso. Tuttavia nelle ultime settimane di guerra appare preoccupato, al punto di far requisire un piccolo appartamento a Bergamo, con un ordine partito dal Comune di Brescia,  in cui potersi rifugiare in vista di una fuga. L'appartamento è al numero 12 di una viuzza della città alta, di proprietà della famiglia Locatelli. Ha preso anche la precauzione di farsi rilasciare dall'anagrafe del Comune di Brescia un documento d'identità munito di fotografia da cui risulta chiamarsi Riccardo Antonioli, di professione autista, a cui sono intestate anche le carte annonarie. Sembra che Milanesi, nonostante tutto, non si preoccupi eccessivamente dopo l'8 settembre di farsi recapitare al suo nuovo domicilio corrispondenza e pacchi, tra cui una radio, direttamente da Cremona anche due o tre volte alla settimana con un'auto di grossa cilindrata. Tanto più che l'unica auto in circolazione guidata da un civile a Bergamo, in quello scampolo di guerra, è solo quella del prefetto. Gli strani movimenti vengono notati appunto dalla portiera dello stabile dei Locatelli, fervente antifascista, che deciderà di usare queste informazioni a tempo debito, quando lo riterrà più opportuno.

Giungono le giornate della liberazione e Milanesi, dopo aver ordinato ai suoi sottoposti di rifugiarsi a Como, a sua volta ripara a Bergamo, dove si rintana in casa, senza mettere più il naso fuori. E' nervosissimo ed in preda all'ansia: prima di partire da Cremona ha consegnato ad un amico, che crede fidato, assegni per circa 600 mila lire da far cambiare in banconote, ma dell'amico non ha più notizie e le strade sono diventate ormai insicure, presidiate da gruppi di partigiani armati. Preferisce starsene lontano, e nel frattempo racconta alla moglie il motivo della sua inquietudine. “Sarebbe meglio che mi dicessi chi è...” gli dice riferendosi all'amico, “Non si sa mai...”. Ma Lino non si fida neppure della moglie, “Non son cose, queste, che riguardano le donne” le risponde maleducatamente, “a suo tempo ci penserò io”. Lino non può immaginarsi che in quel momento il suo destino è già segnato: la portinaia non ha dimenticato quell'auto e quando un gruppo di partigiani, in giro per Bergamo Alta, si ferma davanti alla casa, vuota il sacco. “Viene da Cremona, è un ministro, sta al primo piano..”. I partigiani infilano le scale e bussano alla prima porta. “Fuori le carte!” ed un distinto signore, imperturbabile, mostra, senza batter ciglio i propri documenti, perfettamente in regola. I partigiani sono confusi, la portinaia non sa darsi pace. Possibile che abbia potuto sbagliarsi, in modo così clamoroso e dopo tanti appostamenti? Poi capisce cosa è accaduto: i partigiani hanno sbagliato appartamento e, anziché salire al primo piano, si sono fermati al mezzanino. Quando transita un nuovo gruppo, non si sbaglia più. Milanesi, quando apre la porta, sbianca. I partigiani gli chiedono i documenti e lui, apparentemente tranquillo, li mostra. Sono perfetti, e lui lo sa bene. Quando gli chiedono il suo orientamento politico sorride, tira fuori un altro documento rilasciato dal CLN che certifica come Riccardo Antonioli sia un cospiratore dal 23 aprile 1945. I partigiani sono confusi e non sanno cosa fare, ma il loro capo ha una illuminazione e chiede ancora: “Perchè in una giornata come questa lei, cospiratore fervido, sta chiuso in casa invece di gioire insieme a noi?”. Milanesi, prevedendo la domanda, ha pronta anche la risposta, scopre la gamba e mostra una fasciatura: “Mi sono fatto male”.Il comandante della squadra annuisce col capo e, ormai convinto, ringrazia, saluta e si dirige verso l'uscita. Quando, ad un tratto, poggiando la mano sulla maniglia della porta, si blocca, attraversato da un pensiero: “Mi scusi signore, ma non è possibile. Se io avessi male alla gamba, e fossi entusiasta come sono e come dai suoi documenti ella sembra che sia, non starei certamente tappato in casa. Voglio fare una perquisizione”. 

I partigiani con i mitra spianati iniziano a perlustrare l'appartamento. Nelle prime due stanze non trovano nulla, ma, entrati nella terza, uno del gruppo fa cenno ad un suo compagno di aver individuato qualcosa: sotto una branda si scorgono due scarpe, posate sul pavimento con la punta rivolta verso l'alto. Il partigiano imbraccia il mitra e lascia partire una raffica verso il soffitto, la branda si rovescia improvvisamente su un fianco ed appare, pallido e tremante, Giovanni Zoni, l'autista personale di Milanesi, agente dell'UPI. I sospetti del comandante partigiano si materializzano: ordina a Milanesi di seguirlo vestito così com'è, in pigiama, ed a Zoni di fare altrettanto. Sono le 10 di domenica mattina, 29 aprile 1945, quando Milanesi entra scortato nell'ufficio della polizia ausiliaria, a metà strada tra la sua abitazione ed il carcere di Sant'Agata, e viene affidato in custodia al commissario Tranquillo Bolognini, un ex detenuto politico milanese, già rinchiuso nella prigione bergamasca, a cui il CLN ha assegnato l'incarico. Nonostante Zoni lo accusi ripetutamente, Milanesi nega la sua vera identità ed afferma di essere Riccardo Antonioli, come risulta dai documenti in suo possesso. Trascorre la notte e si arriva alla mattina di lunedì 30 aprile: verso le 11 alcuni partigiani prelevano Milanesi dal carcere, secondo gli ordini ricevuti dal Tribunale provinciale bergamasco costituito dal CLN. Non gli chiedono nulla e lui non dice nulla, lo fanno salire su un'auto che attraversa tutta la città dirigendosi verso il cimitero. La macchina si ferma sul grande piazzale dell'ingresso, Milanesi viene fatto scendere e portato verso il muro perimetrale. Quando dista circa un metro, il gruppetto si ferma ed un partigiano toglie a Milanesi la giacca del pigiama che ancora indossa, dicendogli: “E' inutile sciuparla, può servire a qualcun altro”. Solo in quell'istante Lino capisce quale sia la sorte che lo attende e, voltato con la fronte verso il muro, grida “Viva Farinacci!”, prima che una raffica di mitra lo falci. Sono le 11,30.

Giovanni Zoni viene trasferito alla Caserma Paolini di Cremona, e viene interrogato il 15 settembre 1945 in Questura sui fatti di villa Merli.

 

(2 - continua)

La vera storia di Redenzione, il film maledetto di Farinacci (1)


Il film “
Redenzione” fu un flop, e tanto più clamoroso in quanto vide coinvolto lo stesso autore del soggetto, Roberto Farinacci. Un film realizzato fuori tempo massimo, nella primavera del 1942, quando ormai risultava del tutto anacronistico il tentativo del fascismo, in crisi di identità, di rivolgere lo sguardo indietro alla ricerca della purezza nello squadrismo delle origini. Aldilà dei giudizi scarsamente lusinghieri espressi dalla critica, a gettare nuova luce su quel tentativo maldestro di riproporre in versione cinematografica un dramma teatrale scritto 15 anni prima, è una illuminante serie di articoli scritti, qualche mese dopo la fine della guerra, su un settimanale cremonese, pubblicato per poco più di un anno, sfuggito inspiegabilmente all'attenzione degli storici. Il periodico è “Oggi”, settimanale della Federazione cremonese del partito democratico del lavoro: due soli fogli diretti da Mario Mori, protagonista il 25 aprile dell'attacco alla polveriera di Ossalengo col Fronte della Gioventù, stampati dal 30 dicembre 1945 ad aprile 1946, che svelano tutti i retroscena della produzione mai raccontati prima. Ad iniziare dall'ispiratore del progetto, Lino Milanesi, l'aguzzino di Villa Merli capo dell'Ufficio Politico Investigativo, fucilato a Bergamo il 30 aprile 1945, ma dato per vivo ancora nel  1947, guarda caso proprio da Marcello Albani, regista di “Redenzione” che lo avrebbe incontrato a Roma i primi di novembre. Ma andiamo con ordine.

Siamo nel 1941. Ad una festa organizzata a Roma dalla casa di produzione Scalera Film si presenta il gestore cremonese di una sala cinematografica. Durante un banchetto a cui partecipa sente improvvisamente una signora seduta vicino a lui che si esprime in dialetto cremonese, incuriosito le chiede chi sia. E la signora conferma ovviamente le sue origini all'ombra del Torrazzo: si chiama Maria Basaglia, è nata il 12 giugno 1908 ed è figlia di Mario, un negoziante di porcellane e vetrerie, che aveva il negozio in corso Campi 9, scomparso tragicamente qualche anno prima a Mantova, nel 1917, mentre la madre, Luigia Bernini di Sospiro, gode ottima salute ma non vede l'ora di tornare a Cremona.

Maria Basaglia è sceneggiatrice del film “Ultima giovinezza”, prodotto dalla Scalera con la regia di Jeff Musso, che ha ottenuto un grande successo un paio di anni prima, quando è stato proiettato al Supercinema gestito da Renzo Cavalleri ed ora passato alle sorelle Ferrari di Brescia, ed è moglie di Marcello Albani, sposato nel 1939. I due iniziano a conversare e scoprono di avere un amico in comune, che potrebbe dare una mano nel realizzare un film a Cremona: Angelo Milanesi, detto Lino, amico d'infanzia di Maria, che attualmente gestisce una fabbrica di vernici in via Bissolati con cui fa buoni affari ed è bene immanicato con Farinacci. Alla conversazione si associano altri commensali ed il nostro impresario si convince della validità del progetto, abbandona la tavolata, inforca l'auto e si precipita a Cremona.

Milanesi è in casa, gli apre ed ascolta la sua storia, commuovendosi al ricordo della vecchia compagna di giochi. Concede all'impresario solo una telefonata a casa e i due si rimettono immediatamente in viaggio, questa volta diretti a Roma. Incontrano la Basaglia ed il marito, che in quel momento ha già diretto come regista due film, “Il bazar delle idee” e “Boccaccio” con Clara Calamai, non particolarmente degni di nota. Il tempo dei saluti ed iniziano subito le trattative: in un primo momento il capitale sociale necessario viene individuato in 600 mila lire, oltre ad altre 300 mila sottoscritte che il regista non verserebbe in contanti, ma gli verrebbero riconosciute al momento della liquidazione della società in qualità di premio, oltre ai compensi che saranno stabiliti a tempo debito per le sue prestazioni. Tutto sommato non si tratta di grandi cifre, Milanesi è pronto a versarne subito la metà, mentre le altre trecentomila mila le avrebbe versate un suo amico. Resta il problema del soggetto. Che tipo di film realizzare? Ed ecco l'idea di Milanesi: «Voi sapete- dice ai due – che con Farinacci si può ottenere tutto, soldi, raccomandazioni, facilitazioni. E poi...il nome di Farinacci, è sempre il nome di Farinacci. Perchè non realizziamo per il cinema uno dei suoi lavori teatrali?». La proposta viene accolta all'unanimità. In realtà i testi teatrali disponibili cui far riferimento sono solo due. Il primo, “La beffa del destino” del 1937, viene però giudicato inadatto al grande schermo, l'altro “Redenzione” del 1927 viene modificato e corretto ed infine adattato. 

Milanesi presenta il suo progetto a Farinacci che ne è entusiasta, perchè troppo vivo è in lui ancora il ricordo di quelle lapidarie parole che Mussolini aveva pronunciato nel 1925 a proposito proprio di “Redenzione” nel corso di una riunione di giornalisti, quando aveva detto che “non è la tessera che dà l'ingegno”. Mette a disposizione il soggetto senza pretendere nulla e Milanesi telegrafa euforico la novità a Roma.

Marcello Albani parte immediatamente alla volta di Cremona, si chiude con Farinacci nel suo studio e illustra il progetto. Farinacci ascolta ammutolito ed alla fine cede il soggetto concedendo al regista la facoltà di tagliare, modificare, cambiare ed aggiungere tutte le scene che vorrà. Dopo un mese di lavoro la sceneggiatura è pronta e se ne discute ancora con Farinacci nel suo studio cremonese, fino a quando il gerarca è soddisfatto del risultato ed esclama: «Voi avete composto un capolavoro!». Le stesse parole che poi esclamerà qualche mese dopo, a riprese iniziate,  il giornalista di grido del momento, Marco Ramperti. Ma intanto, però, il risultato non è quello sperato. Il ministro della cultura popolare Alessandro Pavolini non ha alcuna intenzione di concedere il contributo ministeriale alla realizzazione del film, perchè, per usare le stesse parole riferite da Albani a Farinacci, è una “solenne porcheria”. Farinacci non può crederci: «Voi volete dire la vostra riduzione...». «No – risponde piccato il regista – Pavolini ha detto precisamente il vostro lavoro...». Farinacci si alza e lancia due o tre bestemmie, con la mano sinistra vibra tremendi colpi sul tavolo scheggiandolo in più punti, chiama al telefono il capostazione urlandogli i suoi ordini, indossa il soprabito ed il cappello, scende di corsa le scale e balza sull'auto che lo sta aspettando in strada. Ha ordinato al capostazione di telegrafare a Piacenza per agganciare il suo “saloncino”, al quale ha diritto come Ministro di Stato, al rapido che tra mezzora sarebbe transitato in stazione, aggiungendo che, qualora fosse arrivato in ritardo, il treno avrebbe dovuto attenderlo. A Roma il colloquio con Pavolini è tempestoso. «Ah..tu hai detto che io ho scritto una “boiata”?». «Ma ti pare possibile...si tratterà di un equivoco», «Equivoco o no: dai il permesso per far girare la mia “Redenzione”?». Pavolini, di fronte al dilemma di scegliere, inizia a tergiversare, ma Farinacci, secondo il suo costume, inizia a raccontare al ministro una serie di cose di cui Pavolini ritiene di essere l'unico a conoscenza e che per nessun motivo andrebbero divulgate, ed infine cede alle pressioni.

Il 26 giugno 1941 viene costituita la Marfilm, società anonima per azioni con oggetto la produzione ed il noleggio di film, di cui è amministratore unico Maria Basaglia, con un capitale sociale iniziale di 50 mila lire, suddiviso in 500 azioni da 100 lire l'una (Foglio degli annunzi legali della provincia di Roma, n.72, 9 settembre 1941, p. 1700) ed Albani inizia a raccogliere la troupe per girare il film. Direttore di produzione viene nominato Lino Milanesi, privo, ovviamente, di qualsiasi esperienza nel settore, ma tuttavia ricompensato dal Consiglio di amministrazione con diecimila lire al mese. Del film si inizia a parlare, dopo mesi di preparazione, il 9 ottobre 1941 con un articolo de “Il regime fascista” che, dopo aver sommariamente descritto la trama, afferma che: “Il film – a differenza di tanti altri film – disprezzerà la finzione scenica. Personaggi veri che fanno parte di quella schiera elettissima di Eroi che immolarono la loro giovane esistenza per il trionfo del Verbo Mussoliniano; fatti veri e non scaturiti – anche nei loro minimi particolari- dalla fantasia: cornice scenica realistica – quella autentica di Cremona e di Casalmaggiore – dove il film – durante la primavera e l'estate prossima, verrà realizzato in massima parte – e non ambienti che rivelano la loro origine di carta pesta o di compensato; attori scelti fra la schiera numerosa e valorosa degli attori italiani, oculatamente, uno per uno, con aderenza perfetta ai personaggi da interpretare, degni della responsabilità che essi si assumono accingendosi a far rivivere sullo schermo uomini considerati dalla nostra gratitudine  e dalla nostra venerazione come divinità; masse non di generici mestieranti, ma di reali, autentici Squadristi che verranno chiamati, dopo vent'anni, a rivivere ancora una volta, forse per l'ultima volta, per lo schermo, le ore di pericolo e di battaglia da essi vissute generosamente. Ed alla supervisione di tutta la realizzazione di quest'opera cinematografica, lo stesso Autore: Roberto Farinacci. L'Eccellenza Farinacci – affidata la regia del film a Marcello Albani – rivivrà – quale Supervisore – questa vicenda della quale egli fu l'animatore, l'organizzatore, il fedelissimo seguace di Colui che – Duce supremo – aveva votata la sua preziosa esistenza all'annientamento della potenza rossa - «Roma contro Mosca!» - alla grandezza imperiale della Patria. Un film, quindi, «Redenzione» che va atteso con serena fiducia, un film del Tempo Nostro e dalle nostra Fede”.

Il regista Marcello Albani e Vera Calmi

La troupe porta da Roma una novità che colpisce molto i cremonesi: 
le giacche a vento. In città non se n'erano mai viste ed il direttore della produzione, Lino Milanesi, con il direttore generale, se ne fanno confezionare subito due su misura da un sarto. Un altro aneddoto che girava in quegli anni riguarda il supervisore Roberto Farinacci. Arriva un attore del tutto nuovo che deve interpretare la parte del medico, pronunciando non più di due o tre parole. La scena è quella della morte del protagonista, Giuseppe Madidini. L'artista viene truccato, gli viene spiegata la parte, e viene posizionato davanti all'obiettivo della macchina da presa: suo compito è quello di assistere il morente che, dopo aver dato l'estremo saluto, reclina il capo da una lato ed esalta l'ultimo respiro. In quel mentre tutti i presenti salutano romanamente, ma il medico ha un dubbio, visto che nessuno gli ha detto niente a proposito del saluto: come deve comportarsi? Di conseguenza si rivolge al regista: «Debbo salutare romanamente anch'io, che sono il medico?». Il regista ha un attimo di incertezza, ed allora interviene Farinacci: «Fate voi. Dipende dal grado di fascismo del medico». Evidentemente l'attore non sa chi si trova di fronte ed esclama inviperito: «Come si fa presto a dire delle “fesserie”!». Farinacci resta ammutolito, mentre Albani, invece, inferocito prorompe in una scenata, ordinando al medico di fare immediatamente il saluto romano. L'attore esegue, poi, terminata la scena, gira lo sguardo attorno osservando gli astanti impietriti, con nei visi un'espressione inspiegabile. Ne chiede il motivo prima ad uno, poi ad un altro, ed infine qualcuno gli dice la verità. L'attore sbianca e si dispera, ne parla con altri della troupe. Non sa che fare, sente di aver fatto un tremendo passo falso. Infine prende il coraggio a due mani e si presenta paonazzo a Farinacci per spiegargli l'equivoco: «Eccellenza...io non sapevo. Eccellenza..non vi avevo riconosciuto». Trema come una foglia, e Farinacci, ovviamente lo perdona. La storiella, comunque, gira sulla bocca di tutti per almeno una settimana. 

(1- continua)

sabato 11 dicembre 2021

Pericle Sacchi e la nascita del latte artificiale

Balia milanese del primo Novecento

C'è un pediatra cremonese all'origine di una delle più grandi rivoluzioni alimentari del Novecento, destinata a salvare la vita a milioni di bambini e fare la fortuna di industrie come la Liebig, la Nestlè e la Knorr. La corretta alimentazione del bambino, soprattutto nel primo e nel secondo anno di vita, fu uno dei maggiori problemi che afflissero le madri, i medici e le amministrazioni pubbliche nel XIX secolo e nella prima metà del Novecento. A partire dalla metà dell’Ottocento medici, filantropi e amministratori si dedicarono con assiduità alla promozione di strutture finalizzate all’assistenza delle madri e dei lattanti con l'obiettivo di favorire principalmente l’allattamento materno o di fornire alternative come l’allattamento delle balie mercenarie o quello artificiale. Verso la metà dell'Ottocento nel cremonese la mortalità infantile sotto i cinque anni raggiungeva il 51%: le madri erano spesso costrette ad allattare i figli dopo il faticoso lavoro nei campi, dopo ore che li avevano lasciati imprigionati in fasce troppo strette, senza averli mai cambiati, oppure portati nelle stalle o nei campi, al freddo o al caldo estivo senza alcuna protezione. Di conseguenza i lattanti andavano incontro a gravi insufficienze nutrizionali e quando, con la nascente rivoluzione industriale, le madri andarono a lavorare in filanda o nelle concerie di tabacco, la situazione finì con il peggiorare. In alcuni casi i bambini venivano affidati a balie a pagamento che non esitavano ad alimentarli con alimenti del tutto impropri, come polenta o pane biascitato, spesso sedandoli con sciroppo di papavero per evitare che piangessero. Per molti anni il brefotrofio rappresentò l'unico luogo adatto alla cura dei neonati, dei lattanti e dei bambini più piccoli ma, soprattutto, costituì un ambiente dove, grazie a medici coscienziosi e ostetriche preparate, maturò una diversa attenzione verso i problemi sanitari dei piccoli pazienti. Uno di questi medici fu Pericle Sacchi, nato nel 1854 morto nel 1918, laureato a Bologna nel 1877, aiuto del primario ostetrico dell'Ospedale maggiore Paolo Coggi. 

Tra il 1862 ed il 1866 morirono nel brefotrofio di Cremona 1160 bambini su 1931 presenti, pari a circa il 60%, a causa delle condizioni inumane in cui i piccoli erano tenuti. Si sarebbe dovuto garantire una corretta alimentazione, con un numero adeguato di nutrici, separando i bimbi sani dagli ammalati. Ma ancora nel 1881 la mortalità tra gli esposti era del 42,98%, ed era di gran lunga maggiore nei lattanti rispetto ai bambini già svezzati. Fu Sacchi il primo ad impegnarsi per cambiare questa situazione, riuscendovi solo nel 1903 con una parziale ristrutturazione del brefotrofio, inserendovi tre stanze separate per la cura dei sifilitici e dei contagiosi, e separando le puerpere dalle nutrici a pagamento ed i bambini sani dai malati. Ma soprattutto introducendo l'uso dell'incubatrice e del latte artificiale, il primo prodotto sino ad allora. 

Il ricovero lattanti a Milano

Dalla metà del XIX secolo in poi, infatti, si era cercato di porre in qualche modo rimedio alla eventuale mancanza di latte materno, o della balia, attraverso la modifica dei latti animali, considerato che i latti di vacca, di capra a di asina, non modificati erano assai squilibrati nell’apporto dei vari componenti come grassi, zuccheri, proteine. Faceva eccezione forse il latte d’asina che veniva considerato particolarmente adatto al neonato. Già alla metà dell’Ottocento si ricorreva, però, anche alle prime farine lattee introdotte da chimici e industriali come Justus von Liebig (Darmstadt, 12 maggio 1803 – Monaco di Baviera, 18 aprile 1873), Henri Nestlè (Francoforte sul Meno, 10 agosto 1814 – Glion, 7 luglio 1890) e Carl Heinrich Theodor Knorr (Meerdorf, 15 maggio 1800 – Heilbronn, 20 maggio 1875). I primi due alimenti specifici per lo svezzamento, che fecero la loro comparsa sul mercato a soli due anni di distanza l'uno dall'altro dopo la metà dell'Ottocento, furono proprio la zuppa di malto del chimico tedesco Justus von Liebig nel 1865 e la farina lattea dell'industriale svizzero Henri Nestlé nel 1867. Queste due formule ebbero il merito di aprire la strada alla lunga ricerca di alimenti dietetici per l'infanzia, permettendo così una attenzione sempre maggiore per la crescita e la salute dei nostri bambini, ma si trattava di un tipo di alimentazione artificiale ancora ai primordi, molto squilibrata e che causava disturbi gastrointestinali importanti con dissenterie sovente mortali. Verso la metà del secolo si erano già fatti tentativi di modificare direttamente i latti animali per renderli più adeguati all’alimentazione del neonato e del lattante. 

Fu proprio Pericle Sacchi, dopo aver studiato, insieme ad Alessandro Baroschi, capo-chimico dell’Ospedale Maggiore di Cremona, le caratteristiche e la composizione del latte materno e “dell’eccellente latte vaccino, di cui disponiamo a Cremona”, il primo a trasformare il latte di vacca in modo da dargli i caratteri del latte materno, conservando intera la crema, diminuendo a metà la caseina, aggiungendo quanto mancava di lattosio. I risultati ottenuti furono buoni e contribuirono progressivamente, soprattutto nella prima metà del Novecento, a ridurre la mortalità neonatale. Il nuovo latte “umanizzato”, come allora venne chiamato, ottenne però un altro effetto importante, cioè quello di contribuire alla riduzione del fenomeno dell’abbandono dei bambini da parte delle madri povere e lavoratrici, impossibilitate ad allattarli e ad accudirli.
Sulla base di questi studi vennero formulati i primi cosiddetti “latti umanizzati”, aggiungendo ulteriori vantaggi a quelli ottenuti col metodo della pastorizzazione introdotta nel 1889 da Franz von Soxhlet (1848 – 1926).

Ferrante Aporti

Per favorire l’allattamento materno e il baliatico o in alternativa la distribuzione di latte artificiale, nascevano infatti i primi centri di assistenza e di aiuto alle madri e ai neonati con l'obiettivo di fornire se possibile, “nutrici a que’ fanciulli, le cui madri per fisiche indisposizione, o per la conformazione loro non sono atte a nutrire i loro figli, e mancano dei mezzi necessari per procurar loro sostentamento da un’estranea nutrice”  o in alternativa, gratuitamente, i “latti umanizzati”.  Erano i primi ‘Istituti lattanti’ o di ‘Aiuto materno’, anche se avevano come funzione prevalente unicamente quella di sostituire l’allattamento materno. 
In Lombardia i primi ‘Istituti per lattanti e slattati’ sorsero a Milano nel 1850 grazie all’impegno del pedagogista e filantropo milanese Giuseppe Sacchi (1804 – 1891), seguace ed amico di Ferrante Aporti, già fondatore dei primi asili per l’infanzia a Cremona nel 1828. Sacchi aveva preso spunto dalle crêches francesi, o case della culla, la prima fondata a Parigi nel 1844 ad opera di Jean-Baptiste Firmin Marbeau: si trattava di un ricovero di tre sale a pian terreno con un piccolo cortile. 
In una stanza Marbeau aveva disposto dodici culle donate da dodici benefattrici, nella seconda uno “scaldatojo per prepararvi i pochi conforti destinati a quei poveri bimbi, e per asciugarvi i pannilini”, la terza stanza per i bambini slattati, che non avevano ancora l’età per essere ammessi agli asili. Nonostante alcuni detrattori della nuova istituzione, Sacchi interpellò direttamente madame Villarmè, ispettrice benemerita delle crêches parigine, capitata per caso a Milano.
“Colla scorta dei lumi pratici da questa profferitici e col concorso dei medici…”, fu programmato di istituire ‘Case di Custodia’ per lattanti e slattati, inferiori a due anni e mezzo, figli di madri povere e oneste”, che lavorassero fuori casa  La necessità di diffondere questi istituti di assistenza, era improrogabile, bastava osservare la differente morbilità e mortalità tra bambini poveri e benestanti.
In tutta la Lombardia giunse l’eco degli ottimi risultati ottenuti negli istituti per lattanti, o presepi, milanesi che dimostravano una drastica riduzione della morbilità e della mortalità infantile. Un altro cremonese, Stefano Bissolati, padre di Leonida, in quegli anni segretario della Commissione amministratrice delle scuole di carità, sosteneva che i risultati ottenuti “…dovevano indurre ad affrettare la costituzione di presepi, al fine di accudire i bambini della madri operaje durante le ore dii lavoro e permettere l’allattamento al seno almeno tre volte nel corso della giornata”. E il dottor Luigi Ciniselli, primario chirurgo dell'Ospedale Maggiore di Cremona, gli faceva eco sottolineando che gli asili ed i ricoveri per lattanti e slattati, avrebbero contribuito a liberare “le menti volgari da molti pregjudizi, pei quali sono condotte ad applicare alal cura dei bambini le più strane medicature, o ad abbandonare le malattie di essi finantochè divengono gravissime e superiori ad ogni risorsa dell'arte medica”.
Da notare che la maggior parte delle madri che usufruiva di queste strutture erano filatrici di seta, seguite dalle pettinatrici, dalle lavandaie e dalle operaie di altri settori. La maggior parte dei medici che si interessavano dell’infanzia era convinta che le malattie fossero spesso la diretta conseguenze delle carenze igienico e nutrizionali, oltre all’abitudine invalsa di sottovalutare le condizioni sanitarie del bambino.
Lunghe e approfondite analisi a favore degli istituti per lattanti vennero presentate al congresso dell’Associazione Medica Italiana di Firenze del 1866 e nel congresso di Venezia del 1868. 
Vennero stilati regolamenti, che prevedevano la presenza del medico ed i suoi compiti.
Il medico doveva “visitare giornalmente i neonati e i lattanti per suggerire quei consigli che meglio valgano a tutelare l’igiene generale”: la visita andava fatta ovviamente in presenza della madri per fornire loro consigli igienico-sanitari con particolare riferimento al controllo igienico. Le migliori condizioni igienico sanitarie degli istituti non furono tuttavia in grado di limitare i danni provocati dalle scadenti situazioni familiari e dai rendiconti sanitari di questi istituti sappiamo che alla fine dell’800 la mortalità era comunque ancora assai elevata.
Da qui nascevano appelli, come quello lanciato nel 1899 da Felice Celli, Direttore del Comparto Medico dell’Ospedale dei Bambini di Cremona, affinché venissero promulgate leggi “…per la creazione di nuovi istituti, sotto l’egida della Società Nazionale Pro Infantia, nei quali i lattanti venissero accuditi nei tempi  in cui la madre lavorava e dove la madre potesse allattarli ad intervalli”. A Cremona un primo istituto sorse nel 1874, presieduto dallo stesso Luigi Ciniselli,  in via Borgo Spera n. 8 (l'attuale via Alessandro Manzoni) e, visto il successo, un secondo aprì cinque anni dopo, nel 1879 in uno dei quartieri più poveri della città in via Mercato delle Bestie n. 20, l'attuale via Manini.


Fra Giorgio e le streghe di Valcamonica

Compendium Maleficarum (1608)

Cinquecento anni fa, tra il 1518 ed il 1521, in Valcamonica si consumò una delle più grandi persecuzioni dell'età moderna contro i valligiani accusati di stregoneria: in pochi anni vennero arse sul rogo tra 62 e 80 streghe con le accuse più varie, dall'aver portato la siccità all'aver fatto ammalare uomini e bestiame con i loro sortilegi. Nel condurre questa persecuzione si distinse in particolare per la sua inflessibilità l'inquisitore cremonese Giorgio da Casale, frate domenicano che dal 1502 al 1511 aveva già svolto il suo ruolo nel convento cittadino di San Domenico e che papa Giulio II nell'agosto di quell'anno aveva incaricato di raggiunger la Valcamonica, dopo aver svolto una missione l'anno precedente anche a Como. L'inquisitore cremonese non dovette aver vita facile nelle valli bresciane se qualche anno dopo papa Adriano IV, nel suo Breve Dudum, uti nobis del 10 luglio 1523, si sofferma sulle difficoltà incontrate dall'inquisitore nel portare avanti i processi "nei detti luoghi deputati al suo ufficio" a causa dell'opposizione di "taluni, tanto ecclesiastici quanto laici": «In alcune parti della Lombardia e soprattutto in quei luoghi in cui detto Giorgio svolgeva il ruolo di inquisitore, furono trovate molte persone di ambo i sessi che, dimentiche della propria salvezza e allontanandosi dalla fede cattolica, avevano formato una setta, rinnegato la fede abbracciata con il sacro battesimo, calpestato la santa croce con i piedi e perpetrato su di essa atti ignominiosi. Avevano poi abusato dei sacramenti e soprattutto dell'eucarestia, eletto il diavolo come loro signore e protettore, prestandogli obbedienza e venerandolo; con i loro incantesimi, formule magiche, sortilegi ed altri nefandi atti superstiziosi avevano in molte maniere danneggiato le bestie e i frutti della terra.»

Giorgio Cacatossici da Casale era nato circa nel 1455 a Casale Monferrato e viene spesso segnalato semplicemente come Giorgio da Casale. Era entrato nell'ordine dei frati predicatori probabilmente nel convento di S. Domenico a Bologna, centro principale della Congregazione osservante della Lombardia. Durante la fine degli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento studiò teologia allo Studium Generale Bolognese. Il 13 marzo 1482 fu ordinato sacerdote. Nel 1490 era  nel convento di S. Marco a Firenze ma poi tornò a Bologna e nel 1499 fu promosso magistrato di teologia. Successivamente fu iscritto alla facoltà di teologia dell'Università di Bologna e ne divenne decano nel 1504. Il 25 aprile 1502 il Maestro Generale dell'Ordine dei Predicatori Vincenzo Bandelli lo nominò inquisitore di Piacenza (sede primaria) e Cremona (sede secondaria). Questi due sottodistretti erano stati allora ritirati dalla giurisdizione dell'Inquisizione di Pavia. Il nuovo inquisitore aveva immediatamente cercato di avviare processi alle streghe nel suo distretto, incontrando una forte opposizione delle élite locali, soprattutto dopo aver bruciato come strega a Piacenza una giovane donna nel 1503, mentre i suoi problemi a Cremona attirarono anche l'attenzione di papa Giulio II. In una Breve non datata Giulio II diede pieno appoggio agli sforzi di Cacatossici, che nel  primo anno in carica condannò a Piacenza cinque streghe al fuoco e altre due all'esilio. A Cremona Giorgio da Casale istituì la Società della Santa Croce e ottenne per essa alcuni privilegi dal Papa Giulio II nel gennaio 1507. 

Rituale di stregoneria
dal Compendium Maleficarum (1608)

Il 5 agosto 1511 Cacatossici fu nominato inquisitore di Brescia e Cremona, mentre Piacenza fu annessa all'inquisitore di Milano Silvestro Mazzolini da Prierio. Il 19 giugno 1512 il distretto inquisitorio di Cacatossici fu ulteriormente ampliato con l'aggiunta della diocesi di Bergamo. Allo stesso tempo, negli anni 1512-1514 fu anche Vicario Generale della Congregazione della Lombardia. Rimase anche membro della Facoltà teologica dell'Università di Bologna e più volte ne fu maestro reggente. Probabilmente intorno al 1515 Cacatossici fu privato dei distretti di Brescia e Cremona, ma conservò il distretto di Bergamo. Si sa che già nel 1512 il comune di Bergamo protestò contro l'unificazione di questi tre comparti sotto un unico inquisitore e sembra che queste proteste alla fine abbiano avuto successo. Nel maggio 1515 Cremona fu riunita di nuovo a Piacenza sotto l'inquisitore Crisostomo Iavelli e nello stesso periodo anche Brescia ottenne un proprio inquisitore, mentre a Bergamo Cacatossici prestò servizio come inquisitore fino al 1520, presumibilmente l'anno della sua morte. 

Nel febbraio del 1519 Giorgio da Casale chiese invano alle autorità veneziane l'assistenza nei processi alle streghe. Il Consiglio dei Dieci, infatti, preoccupato per l'inaudita violenza della persecuzione, aveva già cercato di intervenire per fermare la carneficina, imponendo il blocco dell'inquisizione nella valle il 31 luglio 1518. Sarebbe riuscito però a fermarla definitivamente solo due anni dopo, il 27 luglio 1520. Ma intanto si era consumata una delle più grandi tragedie della fine del Medioevo. 

Le popolazioni alpine della Valle Camonica, in virtù del loro isolamento, della  loro condizione sociale e delle abitudini che da questa derivavano, unitamente alle infermità e alle deformazioni fisiche dovute alle malattie, avevano da tempo attirato l'attenzione degli inquisitori e dei demonologi, particolarmente sensibili alle informazioni venute dai visitatori caratterizzate da  sospetto e paura e impregnate di pesanti pregiudizi. Nelle valli, inoltre, dove il cristianesimo si era diffuso in modo superficiale e non prettamente ortodosso, erano sopravvissute gran parte delle credenze e delle usanze popolari che conservavano l'impronta degli antichi miti pagani che gli inquisitori comprendevano, inevitabilmente, nel vasto repertorio magico-diabolico. In una lettera datata 1º agosto 1518 Giuseppe da Orzinuovi, funzionario veneto di Terraferma, descrive così la Valle Camonica a Ludovico Querini: “Luogo però più montano che pianura, luogo più sterile che fructuoso, et abitato da gente per la mazor parte più ignorante che altramente, gente gozuta, quasi tutta deforme al possibile senza alcuna regola del vivere civile”, anche se poi richiama l'attenzione sul fatto che errore e apostasia siano causati dalle difficili condizioni di vita che trascinano spesso alla disperazione: “Noe è dubio che li desperati, vedendosi prometere dil bene, assai richeze et a piaceri bontempo, prometono di fare tutto”. Questo determina un costante aumento dell'eresia: “Et pare che da quel tempo in qua siano trasferite le strigaria de albania in questa valle camonica; tanto che li è moltiplicata de tempo in tempo la maledizione, che se ora non se li feva condigna provisione, el morbo de tale peste andava tanto avanti che tutta quella valle, monte e piano, quei poveri sacerdoti et secolai, fati i fedeli parte di le Maestà divina et de loro senza più baptesimo che baptizzati et consequenter dediti ad opere diaboliche, dotti da fascinar li omini, strigar fantolini”. Già dal 1445 l'inquisitore della valle aveva chiesto istruzioni a Venezia su come ci si dovesse comportare, ma è quarant'anni dopo, il 9 dicembre 1485, che l'inquisitore domenicano Antonio da Brescia denuncia al Senato veneziano l'esistenza di streghe a Edolo, e ottiene in seguito dal Consiglio dei Dieci l'approvazione per iniziare il procedimento inquisitorio. Sempre nel dicembre del 1485 la Serenissima sollecita il sostegno del capitano e podestà di Brescia nei confronti di Antonio; frattanto il vescovo della città rivendica il diritto di sanzionare le sentenze di condanna. L'anno successivo i magistrati laici bresciani si oppongono all'operato del frate inquisitore. Nel 1499 tre sacerdoti camuni, Martino Raimondi di Ossimo, Ermanno de Fostinibus di Breno e Donato de Buzolo di Paisco Loveno vengono condotti a Brescia con l'accusa di recarsi al Tonale con l'olio santo e le ostie consacrate per le messe nere senza impartire l'estrema unzione. Il 23 giugno 1505 nei pressi di Cemmo, frazione di Capo di Ponte, vengono arse sul rogo sette donne e un uomo e nel 1510 a Edolo, su condanna del vescovo di Brescia Paolo Zane, vengono bruciate 60 streghe accusate di aver portato la siccità e fatto ammalare uomini e animali con i loro sortilegi.

Goya, il Sabba delle streghe

E' in questa escalation di fanatismo religioso che viene nominato inquisitore a Brescia e Cremona Giorgio da Casale a cui nel 1518, con la ripresa delle persecuzioni vengono affiancati cinque inquisitori per ognuna delle cinque pievi della Valcamonica: don Bernardino de Grossis a Pisogne, don Giacomo de Gablani a Rogno, don Valerio de Boni a Breno, don Donato de Savallo a Cemmo e don Battista Capurione a Edolo, coordinati dal vice inquisitore Lorenzo Maggi. Tra giugno e luglio vengono arse tra le 62 e le 80 streghe, tra cui venti uomini. Subiscono la condanna a morte anche tre personaggi di spicco: tale Agnese "capitana delle fattucchiere", messer Pasino "cancelliere del Tonale" e un tale anonimo che era il corriere del primo in Francia e Spagna, fino a quando, il 31 luglio, la Repubblica Veneta impone il blocco dell'inquisizione nella valle. Un paio di mesi dopo, il 25 settembre, il vescovo di Pola e nunzio pontificio a Venezia Altobello Averoldi porta un certo Bretin, reo confesso di stregoneria, che, davanti al collegio, testimonia l'esistenza di sabba presso il monte Tonale, fornendo il pretesto per una ripresa in grande stile della caccia alle streghe. Il monte Tonale si trova tra la Valcamonica e la Val di Sole, tra la Lombardia ed il Trentino. Si tramanda che su questo monte, durante il mese di giugno, nei giorni di giovedì e sabato, venissero praticati degli incontri tra streghe, descritti nel 1518 dal castellano di Breno Carlo Miani al dottor Marino Zorzi veneziano: “a Breno alcune donne tormentate confessarono di haver fatto morir homini infiniti mediante polvere avuta dal demonio, la quale sparsa in aria facea sorgere procelle e con essa una asserì d’aver ucciso 200 persone”. 
Piazza della Loggia dove fu arsa
Benvegnuda Pincinella

Allo stesso modo racconta di fanciulle che, spinte dalle loro stesse madri, disegnate delle croci a terra ci sputavano sopra urlando disgustose parole. Questo rito faceva apparire il demonio a cavallo che le scortava sulla vetta del monte, sul quale prendevano parte a orge. In cambio del loro ripudio del cristianesimo ottenevano bellezza e giovinezza. Nel corso dei processi del 1518 una donna di cinquant'anni, chiamata Onesta, confessò di essersi più volte recata al Tonale cavalcando una capra. Lassù la donna avrebbe imparato a scatenare le tempeste e, dopo aver reso omaggio al demonio assiso in trono, avrebbe ricevuto una polvere magica per far morire le persone. Onesta raccontò poi di banchetti antropofagi ai quali partecipava una gran quantità di gente. Il 29 giugno 1518 salì sul rogo in piazza della Loggia a Brescia Benvegnuda la "Pincinella", una donna sessantenne di Nave, processata e condannata a morte per stregoneria per aver affermato davanti ai suoi inquisitori di recarsi ai sabba che si tenevano lungo le sponde del Mella e sul monte Tonale. Benvegnuta Pincinella fu denunciata dal suo dirimpettaio, il quale aveva fatto ricorso ai suoi medicamenti a base di erbe selvatiche, che a fra Lorenzo Maggi rivelò di abitare di fronte ad una strega. E bastò quel gesto di viltà, per innescare un incendio che scosse tutta la Valcamonica. C'era però anche chi, più smaliziato, mostrava di non credere all'esistenza dei sabba sul Tonale, come Francesco Rovello da Clusone che, dopo aver assistito ai processi, scriveva il 17 dicembre 1518 a Girolamo Querini: “Invero difficil cosa da credere (...) imaginandomi più tosto che 'l para cussì a queste femine per forza del diavolo, et che siano illusioni”. Ma altri testimoni oculari dei processi del 1518, come il giurista bresciano Alessandro Pompeio non avevano dubbi che “Queste bestie eretiche hanno electo uno monte, el qual se chiama Monte Tonale, nel qual se reduseno ad foter e balare, qui afirmano che non trovano al mondo nihil delectabilius et che onzendo un bastone, montano a cavalo et eficitur equus, sopra il quale vanno a ditto monte et ibi inveniunt el diavolo, quale adorano per suo Dio et signore, et lui ge dà una certa polvere, con la quale dicte femene et homeni fanno morir fantolini, tempestar, et secar arbori et biave in campagna, et altri mali, et butando dicta polvere sopra uno saxo, si speza”.


Giuseppe Manfredi, un cremonese alla conquista del Polo

Giuseppe Manfredi con il padre e la nipotina

N
el 1953 ricorreva il 25° anniversario della morte del grande esploratore norvegese Roald Amundsen, scomparso nel 1928 a 56 anni tra i ghiacci del Polo Nord durante le ricerche dei sopravvissuti del dirigibile “Italia”, comandato da Umberto Nobile. Per celebrare la ricorrenza, Maner Lualdi, grande aviatore e giornalista de “La Stampa” e “Corriere della Sera”, programmò una trasvolata del continente crtico a bordo di un piccolo aereo, il Girfalco dell'Ambrosini, con un motore Alfa Romeo a 4 cilindri da 140 cv del tipo 110 Polo, dotato di tre carrelli con due sci ciascuno. Era un piccolo monomotore biposto del peso di 800 chilogrammi, onorevole compromesso tra l'aviazione romantica e più economica, e la tecnologia moderna, con a bordo radiotelefono, radiogoniometro, tenda per due persone, medicinali e viveri. Lualdi non era certo nuovo ad imprese di questo genere: pilota dell'aeronautica militare, tra il 1937 e il 1938  aveva effettuato il raid aereo da Torino a Rawalpindi, alle falde dell'Himalaya, e ritorno, a bordo di un CA 310, con cui stabilì un primato della categoria coprendo 24.000 km in 54 ore. Nel 1939 aveva vinto il premio istituito da Il Popolo d'Italia, per aver effettuato il più rapido collegamento tra Roma e Addis Abeba con un volo senza scalo di 4500 km in 11 ore e 25 minuti. Tra il dicembre 1948 ed il febbraio 1949 aveva già effettuato il primo volo transatlantico con aereo da turismo “Angelo dei Bimbi” (copilota Leonardo Bonzi, da Milano 27 dicembre 1948 a Buenos Aires 14 febbraio ’49), per raccogliere fondi per i "mutilatini" di don C. Gnocchi, reso ancora più avventuroso da un uragano che fece deviare il velivolo dalla giusta rotta. Ed infine, solo un paio d'anni prima, il 23 settembre 1951, accompagnato da un operatore cinematografico, aveva iniziato una nuova trasvolata, promossa dal Corriere della sera, a bordo di un piccolo aereo, costruito quello stesso anno dalla Macchi (il "Macchino"), lungo appena 6,5 m per un peso di 420 kg, ma dotato di un serbatoio supplementare che gli permetteva di coprire senza scalo 1200 km, con cui da Milano avrebbe dovuto raggiungere l'Australia. Il viaggio, tuttavia, si concluse fortunosamente dopo 16.000 km di volo a causa dell'imperversare dei monsoni che costrinse Lualdi a un atterraggio disperato nella giungla nell'isola di Sumatra.

La jeep Matta dell'Alfa Romeo

Per il nuovo importante evento l'Alfa Romeo mise a disposizione una jeep “Matta” dotata di rimorchio, con il compito di trasportare attrezzature, materiale cinematografico, vestiario ed altro occorrente per la spedizione a cui si sarebbero aggiunti al di là del Circolo Polare Artico, altri quattro mezzi a disposizione dei componenti la spedizione: un veicolo cingolato “Smobil” e tre mezzi marittimi che con felice neologismo il Lualdi chiamava “fochiere” (solide, piccole navi per la caccia alle foche, “autentiche fabbriche del mal di mare”). La partenza della “Matta” anticipava quella del “Girfalco” in modo da arrivare nei vari scali quasi contemporaneamente. A guidare la jeep nell'impresa artica venne chiamato un ex maggiore dell'aviazione, operatore della Incom, il cremonese Giuseppe Manfredi, affiancato all'amico di sempre Giuseppe Belloni. Il raid era stato pensato un anno prima della partenza, avvenuta i primi di marzo del 1953. Lualdi aveva l'idea di festeggiare in modo spettacolare il 25° della sfortunata impresa di Amundsen con qualcosa che avesse lo stesso carattere di eccezionalità, ed aveva di conseguenza progettato il raid che avrebbe dovuto prevedere una doppia spedizione, aerea e terrestre. Per quella aerea avrebbe fatto eventualmente tutto da solo, anche se poi si sarebbe avvalso del secondo pilota Max Peroli e del motorista Pretti, ma per quella terrestre aveva il problema di scegliere i collaboratori. Decise di rivolgersi alla Incom, che avrebbe documentato il raid, e venne a sapere che vi era un operatore quarantenne che si era particolarmente distinto nelle riprese aeree, anzi era il secondo pilota al mondo che fosse in grado di guidare con estrema destrezza l'elicottero “Sicorsky”, il più grande apparecchio sino ad allora costruito in Inghilterra. Manfredi, contattato a Roma, accettò a condizione che suo compagno di viaggio fosse stato Giuseppe Belloni, che si trovava a Milano, il quale non si fece pregare. Giuseppe Manfredi aveva già fatto il pilota di taxi aerei per una società italiana ed era stato pilota personale di Tyrone Power quando nel 1949 l'attore era impegnato in Italia nel film “Il principe delle volpi”. Non era mai stato al polo Nord, ma aveva già girato in lungo e in largo l'Africa ed in elicottero si era calato nel cratere dell'Etna per girare alcune riprese cinematografiche. L'anno prima, inoltre, aveva documentato l'alluvione nel Polesine con i servizi trasmessi nei notiziari della “Settimana Incom”. Con Belloni faceva coppia fissa, al punto che sui due esploratori erano nati anche racconti leggendari, come quello che nel corso di una battuta di caccia grossa avessero ucciso un leone solo aprendone le fauci, afferrando la coda dall'interno e rovesciandogli la pelle. 

La piccola jeep “Matta” affidata alle loro cure costituiva la base a terra della spedizione: avrebbe dovuto contenere in pochissimo spazio dieci quintali di attrezzature comprendenti apparecchi fotografici, macchine da presa, obiettivi speciali, teleobiettivi, telemetri, apparecchi di precisione, tende, effetti personali, equipaggiamento in grado di affrontare temperature bassissime, undicimila metri di pellicola a colori e tremila metri di pellicola in bianco e nero, oltre ai viveri, alla benzina e quant'altro fosse servito all'impresa. Compito di Manfredi e Belloni era curare i servizi giornalisti e cinematografici da distribuire in tutto il mondo, restando in costante contatto da un lato con l'Italia e dall'altro con Luandi, che doveva raggiungere la base avanzata di Bardufoss, dandosi appuntamento per la stessa data.

Giuseppe Manfredi era nato nel 1912 ed abitava con i genitori ed il fratello Gianni nella cascina di via Lugo 7, dove era tornato pochi giorni prima della partenza, il tempo per promettere in regalo alla figlioletta di dieci anni un orsacchiotto vero portato dal polo. D'altronde qualche anno prima aveva recapitato alla nipotina Patrizia, allora appena nata, un regalino calato con un minuscolo paracadute lanciato sulla cascina di via Lugo, durante un passaggio spericolato con l'aereo della Incom.

Maner Lualdi

Lualdi aveva annunciato il raid il 30 ottobre del 1952 al Circolo della Stampa di Milano davanti al padre Adriano, direttore d'orchestra, e alla madre Wanda Stabile de Sailmberg, al conte Bonacosta, a Eugenio Montale, Clara Calamai e tante altre personalità, mentre a Passignano sul Trasimeno si allestiva il piccolo aereo. «Vorrei ripercorrere i sentieri di Andrée e di Peary, di Sverdrup e Nansen, del Duca degli Abruzzi e di Cagni, di Amundsen e di Byrd», aveva affermato prima della partenza. «Cercherò di raggiungere il punto ove la nostra aeronave s'incendiò, e il punto ove Malmgren cedette al destino. Se il gelo avrà pietà di pochi fiori li getterò sulle tombe bianche, fatte dalla banchisa». 

Il Piano di viaggio prevedeva che la Matta anticipasse in ogni tappa la partenza del Girfalco in modo da far coincidere l’arrivo di entrambi a conclusione tappa. Superato il circolo polare artico la “Matta” venne sostituita sul ghiaccio da un cingolato “Smobil” mentre l’assistenza su acqua veniva assicurata da tre piccole e robuste navi per la caccia alle foche. La vettura venne immatricolata a Milano il 25 novembre 1952 con la targa MI 203788 ed intestata alla stessa Alfa Romeo. Era una versione AR 51, telaio 00741 e motore 1307*00339; attraversò tutta l'Europa e raggiunse Oslo via terra. La vettura portava sul muso la dicitura “1900 AR 52” evidentemente a scopo pubblicitario per lanciare la nuova versione civile della Matta che sarebbe entrata in produzione di lì a poco. Era dotata di un primordiale hard top molto più idoneo al clima rigido che non il telone originale.  
Il percorso partì da Roma ed in effetti lì, all’Aeroporto dell’Urbe, Lualdi aveva presentato il “Girfalco” ed aveva salutato autorità e familiari per poi proseguire per Milano con la “Matta”. Il volo con a bordo soltanto Lualdi e l'operatore Max Peroli prese il via da Milano Linate con prima destinazione il piccolo aeroporto di Toussus le Noble di Parigi, raggiunto dopo un erroneo e proibito atterraggio all’aeroporto militare di Brétigny-sur-Orge, poi si diresse all'aeroporto di Grimbergen a Bruxelles, ad Amsterdam, all'aeroporto Kastrup a Copenaghen  il 9 aprile, ad Oslo (aeroporto di Fornebu) con incontro con il generale Larsen, che era stato pilota di Roald Amundsen, a Trondheim, alla base di Bardufoss, quindi a Tromsø. Il progetto per il volo del Girfalco prevedeva, verso il 20–30 maggio, un volo unico con traversata del Mare di Barents e, via Isola degli Orsi, passaggio sulle Svalbard con puntata verso il Polo Nord, e ritorno sulla stessa rotta. Contemporaneamente la marcia di avvicinamento della Matta al Polo attraverso l'Europa si era svolta passando per Parigi, Bruxelles, Amburgo, Copenaghen e Oslo. Attraversato il circolo polare la Matta aveva raggiunto la base dell'aereo.
Il 19 giugno, dopo uno sfortunato e drammatico tentativo del 5 giugno, con un volo di circa 3.000 chilometri  durato circa 14 ore consecutive in condizioni atmosferiche proibitive, il “Girfalco” partito dalla base di Bardufoss, raggiunse il punto, sul Mare di Barents, in cui Roald Amundsen si era sacrificato: lì vennero lanciati pochi fiori benedetti da Padre Pio, le medaglie, le stelle alpine di Feltre appesi ad un piccolo paracadute azzurro. Il lancio si ripeteva verso l’82° parallelo sulla banchisa nel punto in cui si pensava precipitata l’“Italia” ed infine si concluse con l'atterraggio all’aeroporto di Banak, a 70° di latitudine nord. Manfredi e Belloni girarono le riprese con cui venne realizzata una serie di documentari, sia muti che sonori, per la “Settimana Incom”, visibili ancora oggi nell'archivio online dell'Istituto Luce. Il raid valse invece a Luandi
, nel 1954, una medaglia d'oro ed è puntualmente ricordato in Silenzio bianco. Cronache dell'Artico  (Ed. Corbaccio dall'Oglio, 1953). 

Preparativi al Girfalco

L'impresa di Luandi, Manfredi e Belloni è inoltre docuemntata in una ricca collezione filatelica e dai timbri è possibile ricostruire il susseguirsi temporale delle tappe, a cui nessuno dei protagonisti, in quei mesi, diede particolare rilevanza. Sulle buste predisposte per l’occasione dal Gruppo aerofilatelico dell’Unione Filatelica Lombarda di Milano con dicitura a stampa riguardante il raid, immagine dell’aereo e bandiere italiana e norvegese, il timbro di partenza, di “Milano Ferrovia Posta Aerea”, reca data del 4 marzo 1953, quello di arrivo di Tromsø del 2 maggio. Su tutte le buste, numerate e recanti la firma di Maner Lualdi, è impresso lo speciale cachet illustrato, rosso, con l’immagine di un piccolo aereo che collega idealmente il Duomo di Milano con la banchisa polare. Nel 2013, per ricordare questo importante avvenimento nel 60° anniversario, le Poste norvegesi hanno emesso un francobollo ed una busta affrancata con i due francobolli: quello norvegese e quello italiano riproducente il veicolo dell’Alfa Romeo.