martedì 20 novembre 2012

A Cremona il tesoro dei Catari


E’ la vigilia di Natale del 1243 quando Pierre-Roger de Mirepoix, assediato ormai da sette mesi nella rocca di Montsegur a 1207 metri d’altezza con 500 catari circondati da 10.000 uomini armati al comando di Luigi IX, in previsione della resa cerca di porre in salvo l’immenso tesoro ammassato negli anni precedenti. Si sta preparando un accordo che salvi la vita a quanti hanno combattuto coraggiosamente e abbiano rinnegato l’eresia. Per gli  altri il destino sarà quello di essere bruciati sul rogo. Matheus e Pierre Bonnet prendono tutti i cavalli validi che riescono a recuperare. Il tesoro, composto da pezzi d’oro e d’argento di grande valore, deve essere convogliato verso l’Italia, trasportato a cavallo fino a Port-la-Nouvelle dove un battello lo attende per condurlo a Genova. Vengono imbarcati anche i cavalli perchè il tesoro, lasciata Genova, deve in seguito essere portato verso Cremona. Il 1 gennaio 1244 il tesoro dei Catari veleggia verso l’Italia. La traversata dovrebbe durare otto giorni, ma una tempesta obbliga a sbarcare a Mentone. I cavalli ripartono verso Nord alla volta di Cuneo ed in quattro giorni giungono a Cremona.
L’ammodernamento della Cattedrale di Cremona, con la realizzazione del protiro e del rosone sulla facciata orientale ed il completamento del transetto settentrionale, e forse il rifacimento delle volte della navata centrale, ma anche l’ampliamento del palazzo comunale potrebbero essere stati realizzati con il tesoro scomparso dei catari. Sappiamo che a Cremona gli eretici godettero di vasta libertà di culto e movimento. Una forte comunità Catara vi si era insediata senza mai avere una “scuola” come a Concorezzo, Desenzano e Bagnolo San Vito. Non sappiamo neppure se la comunità di Cremona apparteneva all’ “Ordo Bulgarie” che praticava un dualismo mitigato (dipendente dalla chiesa di Concorezzo), all’ “Ordo Drugunthiae”, che praticava un dualismo assoluto (dipendente dalla chiesa di Desenzano) oppure all’ “Ordo Sclaveniae” che praticava un dualismo mitigato (dipendente dalla chiesa di Bagnolo San Vito). A Desenzano esisteva addirittura una Chiesa con oltre cinquecento “perfecti”, tra le principali in Italia e in Europa e vi predicava il vescovo Giovanni da Lugio, autore del “Liber de duobus principiis”, massimo teologo del catarismo, l'unico in grado di tener testa dottrinalmente ai “colleghi” cattolici. Nella vicina Sirmione la situazione era differente. La penisola lacustre era diventata l'estremo rifugio per tutti i catari perseguitati, senza distinzioni liturgiche e dottrinali.
Lì aveva trovato sede la gerarchia ecclesiastica albigese in esilio. Lì continuava le sue predicazioni il vescovo primate di Tolosa, Bernard Marty, fuggito da Cremona, dove aveva trovato temporaneamente rifugio dopo essere scampato all’eccidio di Montsegur.
Il 13 giugno 1251, infatti, il papa Innocenzo IV affidò a Pietro Rosini da Verona il compito di contrastare a Cremona l’influenza del vescovo cataro di Tolosa, Bernard Marty, che vi si era rifugiato per sfuggire all’invasione della sua terra da parte del cattolico re di Francia, dopo che, nel periodo di vacanza del pontificato, si erano verificati numerosi attacchi di eretici ai capisaldi papali, ivi compresi l’incendio della sede dell’Inquisizione e l’assassinio, il 28 maggio del 1242, di dieci suoi membri ad Avignone. Cremona dunque diede rifugio ai Catari in fuga dalla Provenza sotto assedio delle truppe francesi della “Crociata contro gli Albigesi” Nell’ottobre 1243, durante l’assedio a Montsegur, arrivò da Cremona Raymond de Niort, perfetto di Balesta, con un messaggio del vescovo cataro di Cremona che invitava i fratelli a rifugiarvisi e dove avrebbero ricevuto protezione.
Forti di questa informazione, il 23 dicembre verso mezzanotte, due fratelli catari, Matheus e Pierre Bonnet lasciarono di nascosto il castello assediato con diversi cavalli e portarono con loro il tesoro dei catari. Da Montsegur si portarono a Port-la Nouvelle dove, il primo gennaio 1244 si imbarcarono verso l’Italia. Arrivati al porto di Mentone, il tesoro abbandona il mare per proseguire per terra. I due fratelli Bonnet vengono aiutati ad attraversare le Alpi da catari residenti nel cuneese e proseguono quindi attraverso un percorso poco battuto fino a Cremona. Intanto prosegue l’assedio dei crociati a Montsegur. Il 12 marzo 1244 gli assediati propongono ai crociati una tregua di quindici giorni, prima della resa. E’ durante questa tregua che quattro catari riescono ad abbandonare ii castello; ci sono giunti pure i nomi di tre di essi: Amiel Aicart, Hugon e Poitevin, mentre del quarto non si sa nulla. Amiel Aicart e Hugon, molto probabilmente, prendono la via della Spagna, mentre Poitevin e l’altro personaggio si recano in Lombardia. Poitevin verrà segnalato appunto in Lombardia nel 1252 e nel 1255.
Il 16 marzo 1244, nella piana davanti al castello di Montsegur vengono bruciati 220 catari tra cui anche Raymond de Niort che aveva portato la lettera del vescovo cataro di Cremona nell’ottobre 1243. Chi era dunque il quarto uomo fuggito da Montsegur? E se non fosse vera la notizia che il 16 di marzo Bertrand Marty, alla testa di duecento catari, si consegnò agli assalitori? Le cronache ci descrivono Bertrand Marty come molto vecchio a capo dei suoi seguaci ai quali aveva appena imposto il “consolamentum”.  Le prime notizie di questo personaggio ci vengono da Tolosa, dove sappiamo che nel 1233 diventa diacono cataro e nel 1239 “figlio maggiore” (coadiutore) di Guihalbert de Castres, vescovo di Tolosa. Da queste date, non ci sembra che Marty sia stato molto vecchio, per cui è verosimile che nel 1251 fosse presente a Cremona e che vi predicasse 1’eresia catara. La notizia quindi del soggiorno del vescovo Bernard Marty nel 1251 nella nostra città ci svela un altro mistero. In tutte le cronache e leggende sulla fine di Montsegur, viene nominato come strenue difensore appunto Bernard Marty che sarebbe quindi stato bruciato, dopo la resa del castello, insieme a duecentoventi suoi confratelli nel 1244 e gli autori di tutte queste cronache si chiedono che fine avesse fatto il famoso “tesoro dei Catari”. Ma se Bernard Marty lo troviamo a Cremona appunto nel 1251, vuol dire che si era salvato dall’orribile fine con una fuga e che molto probabilmente si era portato al seguito il tesoro della comunità.
Infine, a Cremona il protettore dei catari, Uberto Pallavicino, viene spodestato nel 1268, i Catari vengono quindi imprigionati ed i loro beni confiscati. La bolla papale stabilisce che i beni confiscati debbano essere suddivisi per un terzo ai frati di S.Domenico e S.Francesco, un terzo alla chiesa per la lotta agli eretici ed un terzo al comune dove risiedono appunto gli eretici. Dal 1268 per circa venti anni, a Cremona assistiamo alla costruzione dei conventi domenicani e francescani, in duomo viene rifatta la facclata con l’inserimento del rosone, l’innalzamento del protiro e, forse, la copertura della navata maggiore con le volte; il comune raddoppia il palazzo comunale. Ecco dove forse è finito il famoso tesoro dei catari. Bernard Marty trovò probabilmente rifugio a Sirmione dove esisteva una forte comunità catara definitivamente debellata quando il signore di Verona, Mastino della Scala, desideroso di una riconciliazione col Papa per poter rafforzare il proprio potere, decise di accontentarlo debellando il covo di eretici sul lago. Insieme al vescovo ex inquisitore, Fra Temidio Spongati, fu scatenata una piccola crociata contro Sirmione, che non potendo tener testa alla potenza degli Scaligeri, capitolò. Era il novembre del 1276. Furono arrestati ben 166 tra vescovi e perfetti. Altri furono individuati più tardi. Tradotti con la forza a Verona, cominciò per essi un processo iniquo, che si sarebbe concluso nella maniera più tragica. Il 13 febbraio del 1278, nell'Arena della città, gli ultimi catari e le speranze del loro movimento furono arrostiti vivi in un immane rogo, a centinaia.

domenica 18 novembre 2012

La battaglia fluviale del 1431 nel parcheggio della Coop


Il parcheggio della Coop in via del Sale un campo di battaglia. Non per le auto, beninteso, ma per le galee veneziani di oltre cinque secoli fa. La scoperta sensazionale è stata fatta da Giulio Grimozzi, già presidente del Laboratorio del Cotto, ed è frutto di una scrupolosa ricerca che, alle fonti storiche, ha affiancato i rilievi tecnici delle triangolazioni geometriche.
La battaglia ci cui parliamo è quella combattuta sul Po il 21 e 22 giugno 1431 quando 35 galee della Serenissima, giunte da Venezia per dar man forte al conte di Carmagnola che assediava Cremona, furono sgominate dalle navi dei Visconti nella più grande battaglia fluviale mai combattuta sul territorio nazionale. Spettatori i cremonesi che, meravigliati, osservavano la scena dall’alto delle torri e dei campanili. Ed è proprio quest’ultimo particolare che ha convinto Grimozzi ad approfondire la questione: nelle cronache dell’avvenimento si dice che i navigli veneziani avevano gettato l’ancora ad un “tiro di archibugio” dalle mura, quindi a circa 350 metri di distanza, tanti quanti erano consentiti dalla gittata dei proiettili utilizzati da questi prototipi dei nostri fucili.
Il problema era capire in quale punto esatto del Po si svolse lo scontro. Dai dati raccolti, osserva Grimozzi, si può desumere con buona certezza la posizione nello specchio d’acqua costituito dall’ansa che il fiume formava di fronte a Porta Po Vecchia, collocata all’inizio di via del Sale all’incrocio con via Cadore. Calcolata la gittata dei proiettili degli archibugi in 350 metri si arriva nell’area del parcheggio della Coop. La posizione è stata confermata valutando le linee di osservazione del popolo che, una volta salito sui campanili di Sant’Omobono, San Marcellino e San Pietro al Po, osservava lo scontro: le linee di osservazione di intersecano proprio in quel punto.
Oggi ci risulta difficile immaginare una battaglia di queste proporzioni. Non riusciamo a concepire come una flotta di una trentina di navi abbia potuto risalire il Po da Venezia fino alle mura di Cremona, ed i libri di storia, che narrano le gesta marinare della Repubblica veneta, non ci soccorrono in questo sforzo di immaginazione. La stessa conoscenza dei luoghi attuali non ci aiuta: dove dovrebbe esserci uno specchio d’acqua oggi c’è invece il parcheggio di un centro commerciale. Come è possibile?
Occorre ricordare che l’alveo del Po nel XV secolo non era irreggimentato e le sue sponde erano distanti anche quindici chilometri l’una dall’altra, in pratica dalle mura di Cremona a Monticelli d’Ongina e la sponda cremonese era quasi a ridosso della cinta muraria da ovest a sud-est al punto che le acque la lambivano per un lungo tratto da poche decine di metri dall’attuale via Milano fino a San Sigismondo. Mentre paludi e lanche separavano il corso vivo della corrente dalle sponde piacentine, le acque del Po lambivano la città oltre l’insula fluvialis, collocata  nei pressi dell’attuale piazza Cadorna. Data la larghezza dell’alveo e la portata del fiume che non doveva essere molto differente dall’attuale, la corrente del Po doveva essere prevalentemente di tipo lacustre e poteva consentire facilmente la navigazione a remi e persino a vela anche contro corrente, con fondali mediamente poco profondi ma tali da consentire le manovre delle galee anche in assetto da battaglia.
Quella mattina del 21 giugno 1431, dunque, le galee veneziane erano giunte sotto le mura di Cremona con una certa facilità, pensando di farne facile preda, stante la loro indiscussa capacità marinara.
Le galee veneziane erano imbarcazioni equipaggiate con circa 25-30 rematori di dimensioni ordinariamente comprese entro i 41 metri di lunghezza, per 6,50 di larghezza, 2,80 di  altezza con un metro di pescaggio e un dislocamento di circa 250 tonnellate, anche se si ha notizia di galee lunghe anche cinquanta metri. A prua vi era un castelletto chiamato “rambata”. a poppa il padiglione in cui era ricavato l’alloggio per gli ufficiali.
Galea veneziana del XV secolo
I rematori erano quasi tutti condannati (i galeotti) e l’equipaggio armato era prevalentemente costituito da marinai greci, turchi e albanesi che venivano pagati sulla base del numero di teste che presentavano alla fine di ogni combattimento per il conteggio e la riscossione del compenso.
Tuttavia persero la battaglia. I loro piani vennero vanificati probabilmente per colpa di un paio di errori di valutazione: il primo fu sicuramente la sottovalutazione della forza dell’avversario. Infatti Cremona disponeva di una marineria agguerrita e, soprattutto, di una secolare tradizione di navigazione che risaliva ai tempi delle Crociate, quando i cremonesi avevano inviato oltremare galee, dette Busa, con cento cavalieri ognuna. In pratica, calcolando che ogni cavaliere si tirava dietro scudieri, armigeri, stallieri, cavalli armi e vettovaglie, oltre ai 1500 artigiani citati da Francesco Robolotti, la flotta cremonese doveva essere numericamente di tutto rispetto. Un altro motivo della sconfitta va ricercato nell’atteggiamento del duca di Carmagnola.
Questi avrebbe dovuto attaccare la città da terra, cosicché Cremona si sarebbe trovata tra due fuochi, impegnata su due diversi fronti. Ma questo non avvenne, senza che il motivo sia stato chiarito.
Di fatto il Carmagnola, fosse per ritardo o tradimento, finì i suoi giorni sul patibolo allestito in piazza san Marco dove fu decapitato con l’accusa di alto tradimento. Cremona, peraltro, poteva godere nello scontro di forze fresche, contrariamente ai veneziani giunti sotto alle sue mura dopo giorni di viaggio.
Le navi, dunque, si schierano in ordine di battaglia. Le donne cremonesi, temendo il peggio, si rifugiano nelle chiese e dove capita, ma soprattutto si prostrano in preghiera davanti alle reliquie dei santi protettori, a Sant’Eligio, dove riposa Sant’Omobono, e San Tommaso, che conserva le spoglie dei martiri Marcellino e Pietro. Mentre la città trema, temendo il saccheggio, la flotta veneziana si dispone su tre schiere: la prima, di dodici triremi agli ordini di Niccolò Trevisan, è quella più efficiente per armamento e valore di uomini. Su ogni galea prendono posto esperti capitani appartenenti alle famiglie più celebri del patriziato veneto: i Pesaro, i Soranzo, i Delfino e i Da Ponte. Robustissime catene legano tra di loro le navi per costituire un sicuro argine in previsione dell’attacco dei viscontei.
Altre quindici navi vengono disposte come copertura dei lati del cuneo centrale, mentre altre navi cariche di rifornimenti sono poste dietro ed attendono gli sviluppi dello scontro. Lo stesso criterio di disposizione tattica viene adottato dai viscontei: venti navi disposte a cuneo e altre venti più leggere ed adatte ad interventi di emergenza sulle ali. Il Piccinino, dopo aver dato coraggio ai suoi, dà il segnale dell’attacco. Da quel momento si combatte per quattro ore nell’afa del pomeriggio, tra lo strepito delle armi e il ribollìo dei flutti. In un primo momento i veneziani sembrano avere la meglio, ma all’imbrunire il combattimento viene sospeso quando cinque galee viscontee sono state incendiate e distrutte e tre veneziane catturate.
Tutto viene rimandato al giorno successivo, ma nella notte il Piccinino corre ai ripari e con il favore delle tenebre fa sbarcare i morti ed i feriti e li fa rimpiazzare con giovani cremonesi pronti a difendere la loro città costi quel che costi, mentre incombe il pericolo che intervengano le truppe di terra del Carmagnola.
Il conte di Carmagnola
Ma Niccolò Trevisan che guida la flotta veneta cambia improvvisamente strategia, disponendo le sue galee su due sole schiere. Alle prime luci dell’alba del 22 giugno, dopo una notte di veglia trascorsa in preghiera nelle chiese illuminate da ceri e torce e nel medicare i feriti nello scontro precedente, riprende la battaglia ancora più furente. Nello scontro vengono lanciati i proiettili più disparati: pietre, saette, dardi, torce infiammate, missili con pece e zolfo infuocati e anche vasetti colmi di calce viva, ma vengono utilizzati anche balestre, schioppetti e bombarde.
Mentre regna la confusione fulmineamente entrano in azione le due più potenti navi viscontee, guidate da Pasino degli Eustachi e da Pietrobono da Parma: due galee robustissime, lunghe quaranta metri e larghe più di sei, sospinte dalle braccia di 126 rematori disposti in gruppi di tre su ciascuno dei 46 remi e gli ultimi 21 per lato: come lanciate da una catapulta si fiondano contro il cuneo formato dalla flotta avversaria, schiantando tutto quanto incontrano nella loro corsa, remi, chiglie, catene. I mille soldati viscontei, ancora freschi, hanno ragione dei tremila combattenti veneziani stremati dalle lunghe lotte corpo a corpo, colpendoli con i terribili verettoni, delle lance corte e potenti. Le galee venete, sospinte a valle dalla corrente ormai abbandonate a se stesse prive di rematori e di remi, fracassati dalle prue nemiche, vengono ancora ripetutamente colpite ed affondate. Il resto della flotta viscontea, guidata da Giovanni Grimaldi, si infila tra la riva e l’ala sinistra della flotta veneta e le dà il colpo di grazia. Dopo dodici ore di combattimenti sul Po galleggiano i resti dell’armata veneziana.
Dopo aver atteso inutilmente l’arrivo del Carmagnola al capitano veneto non resta che dare il segnale della ritirata, dopo aver difeso strenuamente i resti della sua flotta,  solo quattro galee ormai impantanate nei bassi fondali. Lui stesso si dà alla fuga su una piccola barca travestito per non farsi riconoscere. Il resto della flotta, inseguito dai vincitori, trova rifugio a Pontelagoscuro. Sul campo rimangono i resti di 31 galee veneziane, ottomila tra morti, dispersi e prigionieri, catturate tutte le navi da carico ricche di rifornimenti e vettovaglie, e condotti in catene a Pavia i marinai libanesi, greci e dalmati.
E per tre giorni i cremonesi fecero festa per lo scampato pericolo. Rinunciando a dividersi il prezioso bottino di guerra, con una intera nave catturata stipata di vesti preziose, damaschi e spezie orientali, accesero luci intense sul Torrazzo, sul palazzo comunale e sulle torrette della Cattedrale.
E la gioia veniva anche a cancellare il ricordo di due precedenti sconfitte subite dai viscontei sulle stesse acque del Po nel 1426 e 1427. Ma era soprattutto felice il comandante pavese Pasino degli Eustachi che in quelle occasioni aveva dovuto inchinarsi alla maggiore esperienza dell’ammiraglio veneziano Francesco Bembo che aveva risalito il Po fino alla confluenza del Ticino, minacciando la stessa Pavia.

sabato 17 novembre 2012

Un Priore di Sion in Cattedrale


La Cappella del Corpo di Cristo nel Duomo di Cremona ripercorrerebbe in realtà la vicenda di Maria Maddalena fino a prenderne la stessa dedicazione: la figura della donna costituisce il fil rouge che lega opere anche temporalmente distanti tra di loro come le due tele di Giulio Campi raffiguranti "Maddalena ai piedi di Gesù" del 1569 e "L'Ultima Cena" dell'anno precedente e "l'Apparizione di Cristo alla Maddalena" di Giovanni Angelo Borroni del 1750. Ma vi è di più: lo stesso Giovanni dell'Ultima Cena, con le sue sembianze femminili, addormentato sul braccio di Cristo, sarebbe in realtà ancora lei, la Maddalena, la vera "coppa" del sangue di Cristo, in quanto sposa e madre dei suoi figli. Una storia vecchia come il mondo, più volte prefigurata o lasciata intuire, che la Chiesa ha sempre risolutamente rifiutato. Nel Duomo di Cremona, alla discussa figura della Maddalena, sarebbe invece dedicato addirittura un intero ciclo pittorico ed una cappella delle più sontuose mai realizzate, quella del Santissimo Sacramento.
La rappresentazione dell'Ultima Cena sembra addirittura ancora più forte dello stesso famoso affresco di Leonardo da Vinci a Milano. In primo luogo abbiamo un quadro in cui Giovanni indubbiamente è una donna, basti osservare queste immagini per togliere ogni forma di dubbio: il volto è assolutamente femminile, i lineamenti sono dolci e inquadrano una donna, anche particolarmente bella. E fin qui non ci sono dubbi. Ma qui siamo di fronte a qualcosa di più. L'Ultima Cena si trova all'interno della cappella del Santissimo Sacramento in cui vengono in realtà  rappresentati tutti i momenti salienti della vita di Maria Maddalena, compresa l'ultima cena. L'altro fatto incredibile è che, come fossero vignette di un fumetto, la donna è sempre la stessa. Le scene della cappella sono: Il Noli me tangere, l'adultera, il lavaggio dei piedi, l'ultima cena. In tutti questi quattro quadri la protagonista è una sola: Maria Maddalena. E' lei nel lavaggio dei piedi, è la stessa nell'adultera, la stessa nel "Noli me tangere", è la stessa nell'Ultima Cena. Non solo gli stessi lineamenti, ma quasi anche gli stessi abiti. Che dire di fronte ad una rappresentazione simile davanti agli occhi di tutti?. Il San Giovanni rappresentato vicino a Cristo nel corso dell'Ultima Cena in realtà sarebbe la Maddalena.
"Noli me tangere" di Angelo Borroni
E il Santo Graal non sarebbe, come la tradizione ha sempre creduto, una coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo, ma una persona, Maria Maddalena, la vera "coppa" che ha tenuto in sé il sang réal, in francese antico il "sangue reale", da cui "Santo Graal", cioè i figli che Gesù Cristo le aveva dato. La tomba perduta della Maddalena è dunque il vero Santo Graal. Secondo questa teoria, fatta propria da Dan Brown nei due romanzi “ll codice da Vinci“ e “Angeli e demoni”, Gesù Cristo aveva affidato una Chiesa che avrebbe dovuto proclamare la priorità del principio femminile non a san Pietro ma a sua moglie, Maria Maddalena, e che non aveva mai preteso di essere Dio. Sarebbe stato l'imperatore Costantino a reinventare un nuovo cristianesimo sopprimendo l'elemento femminile, proclamando che Gesù Cristo era Dio, e facendo ratificare queste sue idee dal Concilio di Nicea  del 325. Il progetto presuppone che sia soppressa la verità su Gesù Cristo e sul suo matrimonio, e che la sua discendenza sia soppressa fisicamente. Il primo scopo è conseguito scegliendo quattro vangeli "innocui" fra le decine che esistevano, e proclamando "eretici" gli altri vangeli "gnostici", alcuni dei quali avrebbero messo sulle tracce del matrimonio fra Gesù e la Maddalena. Al secondo, per disgrazia di Costantino e della Chiesa cattolica, i discendenti fisici di Gesù si sottraggono e secoli dopo riescono perfino a impadronirsi del trono di Francia con il nome di merovingi. La Chiesa riesce a fare assassinare un buon numero di merovingi dai carolingi, che li sostituiscono, ma nasce un'organizzazione misteriosa, il Priorato di Sion, per proteggere la discendenza di Gesù e il suo segreto. Al Priorato sono collegati i templari,  e più tardi anche la massoneria. Alcuni fra i maggiori letterati e artisti della storia sono stati Gran Maestri del Priorato di Sion, e alcuni, fra cui Leonardo da Vinci, hanno lasciato indizi del segreto nelle loro opere. La Chiesa cattolica, nel frattempo, avrebbe completato la liquidazione del primato del principio femminile con la lotta alle streghe, in cui periscono cinque milioni di donne. Ma tutto è vano: il Priorato di Sion sopravvive, così come i discendenti di Gesù in famiglie che portano i cognomi Plantard e Saint Clair.
Ma torniamo per un momento al nostro San Giovanni. Anche il suo aspetto "virginale" ha una origine molto precisa. Uno dei testi fondamentali per capire i soggetti dell'arte sacra dal XIII al XVI secolo è la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Si tratta di un voluminoso repertorio scritto intorno al 1280 che comprende vite di santi e scene tratte dai vangeli, sia "canonici" che "apocrifi" . Questi ultimi non erano considerati tutti eretici o proibiti come molti credono. Molti apocrifi erano testi abbastanza diffusi e ne circolavano anche versioni in lingua volgare. Lo stesso Jacopo da Varazze, vescovo di Genova, ne utilizzò diversi come fonti dei suoi scritti, dichiarandolo apertamente. Nel capitolo dedicato a Giovanni, nella Legenda Aurea leggiamo che "Dio lo volle vergine, e perciò il suo nome significa che in lui fu la grazia: in lui infatti ci fu la grazia della castità del suo stato virginale, ed è per questo che il Signore lo chiamò durante le nozze, mentre lui voleva sposarsi". Ecco dunque che l'aspetto di Giovanni visto come un "giovane vergine" al contrario di altri apostoli raffigurati come uomini maturi, spesso barbuti, si spiega senza ricorrere a fantomatiche Maddalene nascoste. Ma lo stesso Jacopo da Varazze, quasi a smentire quanto detto prima, aggiunge poi: "Alcuni sostengono che Maria Maddalena fosse la sposa di Giovanni Evangelista, che stava per prenderla in moglie quando Gesù chiamandolo lo distolse dalle nozze. Per questo, cioè per il fatto che le aveva portato via lo sposo, offesa se ne andò e si dette ad ogni tipo di dissolutezza", ma aggiunge che "tutte queste cose sembrano essere false e prive di fondamento". Insomma Dan Brown non ha scoperto nulla di nuovo. A conferma dell'atteggiamento ambiguo, cosciente o inconsapevole che sia, tenuto nel rappresentare la figura di San Giovanni esiste anche un disegno dello stesso Leonardo da Vinci conservato oggi alla Biblioteca Rale di Torino presentato alla mostra "Il Genio e le passioni" curata nel 2001 da Pietro Marani. Si tratta chiaramente del volto di una fanciulla che, secondo lo stesso curatore della mostra, sarebbe poi stato adottato per alcuni personaggi del Cenacolo, compreso lo stesso Giovanni "che doveva essere contraddistinto da un'analoga dolcezza e intensità, se la pittura non fosse subito deperita". Giulio Campi aveva dunque davanti a sè un tradizione iconografica precisa cui far riferimento. Semmai non si è sforzato con la fantasia nel replicare inalterata la figura, quasi fosse un fumetto, facendole vestire i panni di Maddalena nel riquadro sovrastante.
Ma il quadro dell’Ultima Cena presenta un altro particolare che lo rende unico e misterioso. L’autore, Giulio Campi, avrebbe infatti voluto apporvi una sorta di sigillo raffigurando se stesso in uno dei personaggi che assistono al banchetto. E’ l’enigmatico personaggio che si affaccia all’estrema destra. L’unico a voltarsi verso l’osservatore. Il suo viso, tra i discepoli che si affollano intorno a Cristo, è l’unico fortemente caratterizzato, incorniciato da una rada barba del tutto simile a quella presente sul profilo di una medaglia dell’Accademia Carrara di Bergamo dedicata appunto al nostro illustre concittadino. Ed è anche l’unico, in una scena di genere, a vestire un abito di foggia moderna. Quando dipinse la tela verso il 1569 Giulio doveva avere intorno ai 62/63 anni, era ormai alla fine della sua carriera e si trovava a rivaleggiare nello stesso lavoro con il più giovane Bernardino, allora nella sua piena maturità artistica. Perché mai avrebbe voluto effigiarsi in un quadro del tutto originale come quello dell’Ultima Cena? Che anche lui come Leonardo abbia voluto lasciare un segno della sua appartenenza al sodalizio misterioso del Priorato di Sion, mostrando quindi di condividere la tesi della Maddalena sposa di Cristo?

lunedì 12 novembre 2012

Inventata a Cremona la prima lampadina Osram

La FR 900 (foto G. Lazzari)

Tutti conosciamo il marchio Osram, nato ufficialmente in Germania nel 1906 ad opera del barone austriaco Auer von Welsbach, divenuto celebre per aver brevettato la prima lampadina moderna con filamento in tungsteno. Su quella lampadina Auer, che fino ad allora era noto per essere fabbricatore di cucine e scaldabagni a gas, reticelle, lampade a gas, fornelli, ferri da stiro a stufe sempre a gas, costruì la sua fortuna. Ma pochi sanno che in realtà la prima lampadina moderna a filamento metallico è stata realizzata, prodotta e utilizzata a Cremona ben prima che Auer ne venisse a conoscenza.
Si chiamava proprio Osram, acronimo che non era il risultato dell’accostamento dei due termini osmio e wolframio, come poi venne elaborato a posteriori dopo il 1907, ma semplicemente la lettura al contrario, come avrebbe fatto Leonardo da Vinci,  del più comune termine “Marso”, che i cremonesi di allora conoscevano bene. Era infatti la palude formata dal Morbasco ai piedi di via Massarotti, dove in quei lontani anni, in un’oscura vetreria, si realizzava nel 1900 la prima lampadina della storia moderna. Un gruppo di geniali imprenditori cremonesi, il vetrario F.R., di cui purtroppo ricordiamo solo le iniziali, il farmacista Francesco Cavana, l’industriale Fortunato Arvedi, ne sono stati gli inventori. La vicenda, un vero e proprio giallo dai contorni dello spionaggio industriale, sarebbe stata relegata al silenzio, come in effetti è avvenuto per oltre un secolo, se un cocciuto cremonese, Gabriele Lazzari, non si fosse ostinato nel riportarla alla luce, ricostruendola nei minimi particolari in oltre quattro anni di ricerche. Ha raccolto un faldone di quattrocento pagine, con documenti, fotografie, riproduzioni, partendo da quella lampadina, rintracciata fortunosamente in una vecchia cassetta di legno, adagiata sopra una pila di giornali e vecchie riviste in una soffitta di via Carlo Speranza.
La lampadina è del tipo a incandescenza a filamento metallico, con bulbo in vetro  e impresso in trasparenza a smeriglio il marchio Osram. Sopra il contrassegno spicca lo stemma del Comune di Cremona con il motto della città “Fortitudo mea est in bracchio”. Scritte a mano libera con una penna sono le iniziali del costruttore, F.R., e la data di fabbricazione, il 12 novembre 1900. All’interno del bulbo, sul fondo circolare del vetro, sono scritti a mano con una penna dotata di pennino altri numeri. La virola è del tipo “Helios”, tedesco, ma mai adottato dalla Osram ufficiale fin dai suoi inizi. Sono elementi che hanno indotto Lazzari a ritenere la nostra lampadina incompatibile con il marchio “Osram” nella sua accezione classica. E dunque... Auer che quel marchio aveva registrato solo il 17 aprile 1906 a Berlino non poteva esserne il vero autore ma solo chi, anni dopo la sua invenzione, l’aveva registrata a suo nome. Non solo: il termine Osram non poteva essere l’acronimo di osmio e welframio, che nel 1900 ancora non erano nè conosciuti nè sperimentati con assiduità. La nostra lampadina, inoltre, era dotata di una soluzione tecnica come l’arcolaio che aveva permesso di soppiantare il filamento a carbone con quello metallico, introducendo il tungsteno e facendo fare alla lampadina quel salto di qualità che la farà resistere al tempo. Allora c’era solo una persona in grado di fare questo: Fortunato Arvedi.
Gabriele Lazzari nella sua ricerca si è imbattuto in un’anziana signora che ricorda come “lampadine di quel tipo venivano date dal Comune di Cremona in dotazione alle antiche latterie comunali dall’inizio del ‘900, ed alle farmacie comunali poi”. Una di queste lampadine, fabbricata qualche anno dopo, è conservata al museo civico di storia naturale.
Fin dal 1725 esisteva nella zona compresa tra Porta Mosa e Largo Pagliari un laboratorio di vetreria, fondato dal veneziano Gaetano Dolfini, che il Grandi ricorda ancora esistente verso la metà dell’Ottocento. Da piccolo opificio l’attività venne trasformata in azienda dalla famiglia Mina, trasferendo la sede in via Aporti. Nel 1881 fu costituita una Snc denominata Martini-Rizzi & C. che nel 1887 assunse il nome di “Vetraria Cremonese” ed aveva come soci Pietro Rizzi, Fanny Mina, Teresina Cremonesi, Luciano Ferragni, Ernesto Cremonesi Ulisse Dongiovanni e Amtonio Gamba. L’anno successivo l’azienda cessò l’attività con il subentro di Carlo De Stefani che nel 1900, a sua volta, cedette l’impresa ad imprenditori milanesi che, il 4 novembre 1900 costituirono la ditta “Società Vetraria Cremonese”, con sede in via Morbasco, nei pressi di porta Po. Ne facevano parte Giuseppe Bellavita, Guido e Arturo Stabilini, Enrico Cadari che, il 25 aprile 1901, accettarono l’ingresso di tre nuovi soci milanesi: Achille Magnani, Giovannina Lucioni e Luigi Clerici. Fin dal 1889, peraltro, Carlo De Stefani aveva già specializzato l’azienda nel settore della illuminazione utilizzando il logo “Comune di Cremona”, presente sulle lampadine a filamento di carbone, di cui sono rintracciati esemplari fin dal 1886. La “Società Vetraria Cremonese”, come abbiamo visto si era trasferita nella zona del Morbasco. Si è potuto rilevare che la fabbrica sorgeva in via Massarotti, sulla riva del colatore, a circa 50 metri dall’incrocio con via Trebbia.
Una parte fu demolita per costruirvi la sede dell’Ufficio di collocamento mentre un’altra parte è stata per anni sede del marmista Galli. Demolita del tutto nel 2005, ospita oggi un piccolo residence. Il Morbasco, nel tratto compreso tra via Massarotti e piazza Cadorna formava due anse soggette ad allagamenti, dove i cremonesi erano soliti recarsi a pescare.
Nella lanca di porta Po sfociava anche la Cremonella. Con termine popolare la località veniva chiamata “marsòon”, decisamente appropriato in quanto vi scaricava le acque anche il Macello Pubblico. L’altra lanca, più piccola, situata qualche centinaio di metri a monte, veniva chiamata “marso”, sempre in considerazione del cattivo odore che emanava. I vecchi cremonesi chiamavano scherzosamente “montagne del Lugo” le montagnole di terra elevate artificialmente per arginare le due lanche. Con il termine “Marso” veniva identificata l’intera sponda sinistra sul Morbasco, compresa la recente vetreria, mente la sponda destra era soprannominata Montagnana, o cascina del Lugo. “Sulla sponda sinistra – spiega Lazzari – si erigeva il fabbricato della Vetraria Cremonese soprannominato Marso, affacciato sulla via Morbasco adiacente ai bastioni di porta Po. Pertanto, dovendo indicare graficamente a qualcuno su che sponda del Morbasco si trovi la via Morbasco, quindi davanti al Marso, chi lo fa dovrà leggerlo sulla piantina topografica al contrario, da destra verso sinistra, cioè OSRAM. Così effettivamente doveva apparire a chi transitava sulla via Morbasco, o al postino addetto alla consegna postale destinata alla vetreria, che cercava quell’ubicazione sulla cartina. Come se dovesse leggerne un’insegna esposta sul tetto esterno della vetreria, rivolta verso l’interno del cortile, da dove, una volta entrati nel vialetto di passaggio verso l’ingresso, bastava girarsi per leggere Marso, quello che all’esterno appariva Osram”.
Nel frattempo nel 1888 era nata la “Sturla & C. Società di Elettricità” di cui era stato nominato amministratore il farmacista Francesco Cavana, presidente immobiliare membro del collegio sindacale della Banca Mutua Popolare, che era riuscito a farsi rinnovare per tre anni dal Comune la concessione per la realizzazione di installazioni elettriche “nella parte più popolosa e importante della città, allo scopo di distribuire energia per uso pubblico e privato, per l’illuminazione e la forza motrice”.  Tra le prime installazioni elettriche vi furono la stessa casa del Cavana, il caffè Soresini, il Garibaldi, la pagoda dei giardini pubblici di piazza Roma e i ritrovi mondani più esclusivi del centro. Al Cavana venne rinnovata la concessione anche nel 1890, grazie ai buoni auspici del sindaco Ferragni, nonostante l’amministrazione preferisse adottare ancora il gas per l’illuminazione delle strade e delle piazze, limitando l’uso dell’elettricità ai sobborghi o alle zone più buie, stante gli alti costi dell’energia elettrica. Ma la “Società Cremonese di Elettricità” era destinata ad avere vita breve. 
Erano gli anni in cui in Comune si iniziava a studiare la possibilità di produrre energia elettrica in proprio. L’ingegnere Giuseppe Vacchelli, ad esempio, intendeva applicare una dinamo ad una ruota di mulino posta in mezzo a due grosse barche ancorate nel corso di un fiume, e nel 1900 progettò una centrale elettrica a Mirabello Ciria, con cui il Comune si assicurò l’acquisto di energia a prezzo conveniente, sperimentando la realizzazione di cabine di trasformazione per ridurre la caduta di tensione provocata dal superamento di lunghe distanze. La linea venne completata nel 1903 nell’amministrazione comunale si fece strada l’idea di un organismo istituzionale di tipo pubblico che potesse sostitursi al privato nella distribuzione dell’energia elettrica. In breve la Società Elettrica di Cavana fu liquidata sfruttando una discutibile regola di procedura che prevedeva la possibilità di concludere una transazione senza riunire il consiglio comunale. La società fu acquisita dal Comune per 25.000 lire. Il Cavana, costretto a cedere la propria azienda al Comune, decretò in questo modo anche la fine della vetreria che fabbricava la famosa lampadina FR 900 OSRAM.  Erano “indubbiamente più durature delle Comune-Cremona al carbonio, ma nell’immediato poco capite ed accettate – osserva Lazzari – data la forte differenza di prestazioni luminose rispetto alle abituali in fibra vegetale. Per il momentaneo errato impiego della FR 900 il malcontento da parte del Comune e degli stessi cittadini aumentava, invece di diminuire. Lamentavano, date la luce difforme e gli ingannevoli giochi d’ombra prodotti dalle FR 900, di non riuscire a distinguere bene a distanza nell’oscurità delle nottate, le insidiose buche, gli immancabili dislivelli nel cuore cittadino, del selciato lastricato...Non si può definire un bell’esordio, quello della nostra prima lampadina a filamento metallico con arcolaio, se pur presentando soluzioni e caratteristiche d’avanguardia richiedeva in effetti un diverso tipo di distribuzione più folta e omogenea, per potere essere usata e utilizzata al meglio”. Nel 1904 Francesco Cavana entra a far parte della Vetraria Cremonese come socio amministratore, ma nel corso dello stesso anno ne decreta la chiusura.
“Se pur tecnicamente più valida e duratura – commenta ancora Lazzari – la FR 900 non aveva le caratteristiche compatibili con la primitiva tipologia impiantistica ancora in uso, nè risorse economiche proprie, o finanziamenti necessari per conquistarsi l’attenzione. I nostri ingenuamente pensavano che per vendere bastava avere un nuovo prodotto. Decretavano però in questo modo un altrettanto immediato, quanto rapido e mai pubblicamente risaputo declino, lo dimostra il fatto che la conoscenza e diffusone della nostra FR 900 non riuscì mai a varcare le mura della città di Cremona. Il Comune stesso, pur riconoscendo al Cavana il diritto di monopolizzare la FR 900 col suo stemma in esclusiva, al posto di impiegarle aumentando il numero delle lampadine accese sul territorio, ne prese le distanze liquidandole; le ritennero un lusso che non ci si poteva permettere. Preferì mantenere quelle ad arco, più costose in tutti i sensi e incrementare i becchi a gas di Auer. Pur dopo aver sperimentato i pregi della nuova illuminazione, specialmente durante le sontuose feste da ballo e di carnevale al teatro Ponchielli, magistralmente illuminate da grandiose piantane e lampadari equipaggiati proprio con le nostre lampadine, da sempre fabbricate in loco, uniche, impareggiabili nel loro genere”.

domenica 11 novembre 2012

Pizzighettone, o meglio Atlantide


Per rintracciare la mitica Atlantide basta recarsi in riva all'Adda, in quel di Pizzighettone. Almeno questo è quanto sostiene Antonia Bertocchi, studiosa cremonese di antropologia, in un articolo pubblicato sul numero 109 di febbraio 2009 della rivista "Hera", "Inferni e Paradisi della Padania Atlantidea" che costituisce la versione divulgativa di un saggio più ampio in corso di lavorazione. La costola di mammuth conservata nella chiesa di San Bassiano di Pizzighettone, le leggende sul lago Gerundo e sul mostro Tarantasio, il mito di Fetonte costituirebbero le tracce visibili dell'antico continente scomparso. Nel formulare la sua tesi Antonia Bertocchi recupera elementi storici, 
antropologici, miti e leggende arrivando alla straordinaria conclusione che Atlantide era proprio qui, in Padania. Aristotele ha tramandato il ricordo di un lago di acqua calda, poco lontano dal Po, dai miasmi pestilenziali, in cui  secondo quanto narravano gli abitanti della zona, sarebbe caduto Fetonte con il suo carro. Queste paludi sarebbero da identificarsi con il lago Gerundo che in tempi antichi si estendeva dal bergamasco al cremonese e al lodigiano fino alla confluenza dell'Adda nel Po a pochi chilometri da Cremona. E' lo stesso lago che descrive Apollonio Rodio tre secoli prima di Cristo nelle "Argonautiche": "La nave si spinse molto in avanti grazie alle vele e penetrò nel corso superiore dell'Eridano, dove una volta Fetonte colpito al cuore d un fulmine fiammeggiante, dal carro del Sole cadde semi bruciato nell'acqua della profonda palude: ancor oggi dalla ferita bruciata esce un vapore pesante e gli uccelli non possono oltrepassare la distesa d'acqua spiegando le loro ali leggere, ma cadono in volo bruciati".
Secondo l'interpretazione offerta dalla Bertocchi si tratterebbe di depositi metaniferi conseguenti a fenomeni di eutrofizzazione, secondo la definizione che ne dà lo stesso scopritore del metano Alessandro Volta di "aria infiammabile nativa delle paludi". Ricordiamo, ad esempio, l'esistenza del giacimento di Bordolano, dove nel 1952 scoppiò un incendio ed il gas che bruciò a 200 atmosfere per oltre trenta giorni produsse fiammate visibili da molto lontano. Potrebbe essere questo fenomeno all'origine della leggenda del drago Taranto o Tarantasio, di cui si conserverebbe una costola appesa al soffitto della chiesa di San Bassiano, che il naturalista Enrico Caffi ha identificato con i resti di un mammuth dell'era glaciale, di cui si trovano resti in varie zone della Lombardia. Bertocchi ritiene che a riportare in superficie resti attribuibili ad un periodo che va dai cinque ai due milioni di anni fa, possa essere stato l'impatto con un meteorite di dimensioni colossali tali da provocare un sovvertimento del suolo, facendo emergere una miscela di gas esplosivi e petrolio, incendiati successivamente dalla caduta di fulmini. La caduta di corpi celesti non è d'altronde un fatto raro nel cremonese. Ne sono state descritte numerose nei secoli scorsi, e l'ultima in ordine di tempo, con la caduta di un meteorite di piccole dimensioni, è avvenuta ad Acquanegra cremonese nel 1937. Altri studiosi hanno datato al 2350 avanti Cristo la serie di sconvolgimenti geologici derivanti da una pioggia di meteoriti, che avrebbe interessato il mondo allora conosciuto, compreso tra il Mediterraneo e il Caucaso, la Libia e l'Etiopia, generando la nascita del mito della Fenice e di Fetonte e dando origine in molte civiltà al culto dei corpi celesti.
Tutto quanto risalirebbe ad un'antica tradizione raccolta anche da Platone nel Timeo, quanto attribuisce a Crizia la narrazione dell'episodio con protagonista Solone che racconta dell'incontro avuto in Egitto con un sacerdote e la spiegazione data da questi del mito di Fetonte. "La verità che esprime - aveva detto il sacerdote - è la deviazione degli astri che circolano per il cielo attorno alla terra, e la distruzione di tutto ciò che sta sulla terra, che ha luogo dopo periodi di tempo molto lunghi, a causa di molto fuoco". Forse la possibile allusioni a devastanti cadute di meteoriti. Gli studiosi di fenomeni parascientifici hanno collocato l'inizio di queste catastrofi al momento della distruzione di Atlantide verso il 10.500 a.C. Antonia Bertocchi, invece, sviluppa l'ipotesi che il misterioso corpo celeste "padano" possa essere caduto nel corso dell'Età del Bronzo, a poca distanza dal Po, provocando, con il suo impatto, la formazione del lago Gerundo. "Da anni - racconta - sto raccogliendo materiali sulla probabile localizzazione di Atlantide nella pianura padana. Le impronte etimologiche ne costituiscono un aspetto rilevante. Ad esempio, confrontando i toponimi. Acherum (Acerra) e Gerundo ho scoperto che non a caso si somigliano e anzi concettualmente coincidono perchè richiamano da vicino l'Acher egizio (acher-u al plurale) costituito dall'immagine di un duplice leone che personifica le porte della terra attraverso le quali il dio sole deve passare ogni mattina. Esso regge al centro il sole che sorge all'orizzonte". Il termine "acher"  è presente anche in Acheronte con il significato di un fiume che come l'Eridano sprofonda sotto terra. Acheron, in latino Acheruns, deriverebbe dall'accadico ah-herum, cioè riva scavata da "herum", cioè scavare, incrociato con accadico "herrum". "Harrum (sprofondamento) e Gerru costituisce la base del mostro infero e tre teste Gerione - spiega Bertocchi - e Girrum in accadico è il dio del fuoco". 
Misteriosa al proposito sarebbe la posizione di Pizzighettone e Gera, tagliati in due dall'acqua. "Questo orientamento fa pensare all'uso egizio di collocare la città dei vivi e quelle dei morti rispettivamente sulla riva orientale e occidentale del fiume Nilo. Infatti, quella che potrebbe essere considerata la città dei vivi (Pizzighettone) è posta sulla riva orientale dell'Adda mentre la sua corrispondente città dei morti (Gera, considerata di origini etrusche, ma probabilmente ben più antica), si trova sulla riva occidentale. Lo scopo di questo orientamento era quello di legare il destino dell'anima al risorgere del sole. Il defunto veniva consegnato all'orizzonte occidentale (dove il sole tramonta) per inserirlo nel ciclo della rinascita cosmica facendo in modo che la sua anima potesse risorgere dall'orizzonte orientale incarnandosi in nuove forme viventi". Una Padania atlantidea, dunque, scoperta e abitata dagli Egizi e distrutta dalla caduta di un meteorite che pose fine a quella civiltà. Atlantide, appunto.

giovedì 8 novembre 2012

Il segreto dei MacCrimmon


Furono i pifferai cremonese a dare origine alla cornamusa scozzese? Se ne parla dagli anni Cinquanta quando dalle ricerche di Agostino Cavalcabò, risultò che sarebbe stato proprio un pifferaio cremonese, Pietro Bruno, costretto per motivi religiosi a lasciare la sua città, a far conoscere in Scozia, con il nome di Patrick Cremon, lo strumento suonato all’ombra del Torrazzo.  A questa ipotesi che, come vedremo in seguito, non è mai stata suffragata da alcun documento, se  ne aggiunge oggi un’altra che, pur non modificando la sostanza, aggiunge però nuovi particolari che confermerebbero questa teoria.  Ma andiamo con ordine. Ancora oggi è murato sulla fronte del palazzo degli Agricoltori in piazza del Comune un bassorilievo in marmo che rappresenta un “piffararo”. Già agli inizi del 1400, come documentano le delibere della “Magnifica Comunità di Cremona” i suonatori di piffero venivano assunti, quattro o cinque alla volta, per “pulsare” i loro strumenti a fiato ogni sabato, al  vespro, davanti all’altare maggiore della Cattedrale, oppure sul poggetto del Battistero e inoltre dovevano intervenire in tutte le feste, nelle solennità, nelle processioni e in tutte le occasioni in cui il Comune era solito fare oblazioni alle varie chiese. Fra le processioni era memorabile quella del Corpus Domini e quella dell’Assunta del 15 agosto, quando i pifferai dovevano precedere il baldacchino. Il Comune forniva ai pifferai sei braccia di panno bianco e rosso con cui dovevano confezionarsi l’abito e il mantello. E quanto questo fosse importante è ricordato anche da quello che successe nell’agosto del 1603 quando il Comune, a corto di panni, alla metà del mese aveva deciso di distribuirli soltanto per le cappe e i cappelli, suscitando le proteste dei pifferai che volevano il necessario per l’abito completo. I pifferai formavano una società che si chiamava “Societas pulsatorum piffari” che trattava collegialmente con il Comune e proponeva l’assunzione di nuovi suonatori selezionati e che spesso venivano scelti nell’ambito familiare. Le prime notizie sui pifferai risalgono al 1495, quando la comunità cremonese il 28 aprile si era rivolta al duca di Milano per ottenerne la conferma dell’elezione di un nuovo musicista. L’anno precedente era morto il “piferro” Antonio Gavazolo, che da oltre 40 anni aveva esercitato il suo mestiere alle dipendenze del Comune, per cui era stato eletto il figlio Lorenzo. Un altro caso di figlio subentrato al padre si ha ancora nel 1563, segno evidente che a Cremona non esisteva una vera e propria scuola ma l’arte si tramandava a livello familiare. In ogni caso nel 1464 il Comune aveva eletto cinque suonatori con tutti i relativi obblighi.  I nostri suonatori venivano chiamati anche per accompagnare le festività nei paesi del cremonese, come ad esempio nel 1609 quando uno di essi, Cesare Quaglioni, fu invitato a Dosimo. Tuttavia nel 1629, volendo ridurre le spese pubbliche per le condizioni dei tempi, i Signori Conservatori deliberarono il 29 dicembre con nove voti a favore contro quattro di sopprimere il “Chorum Tibicinum, qui vulgo Piffari dicuntur”. I cremonesi rimasero così senza ensemble anche se, per chi avesse voluto sentire suonare altri pifferai, c’erano sempre quelli del Castello, stipendiati dal Re di Spagna, che suonavano due volte al giorno, alla mattina e alla sera. 
E veniamo ora alla Scozia. Agostino Cavalcabò racconta di una cornamusista scozzese di origine italiana, un certa Rachele Mac Crimmon, morta a Dunvegan nell’estate del 1914. Cavalcabò cita anche quanto affermava il “Dizionario universale dei musicisti” di Carlo Schmidl: “Nelle vene di questa singolare musicista scorreva però anche del buon sangue lombardo, poichè la tradizione ricorda come parecchi secoli addietro un cremonese suonatore d’arpa si stabilisse in Scozia, prendendo il nome di Mac Crimmon: i suoi discendenti divennero tutti celebri suonatori di cornamuse non solo, ma si distinsero anche come compositori, scrivendo una quantità di musica per questo strumento; essi fondarono a Dunvegan, ove vivevano, una scuola di cornamusisti che divenne famosa ed alla quale accorrevano allevi da tutte le contrade della Scozia, che trasfondevano poi a loro volta in altri esecutori l’arte loro”. Il misterioso cremonese migrato in Irlanda si sarebbe chiamato secondo il Cavacalbò Pietro Bruno e sarebbe stato figlio di un prete, chiamato Giuseppe, nato verso il 1475 ed emigrato al principio del 1500 per motivi religiosi. Qui avrebbe dapprima preso il nome di Patrick Cremon, poi mutato in Mac Cremona e definitivamente in Mac Crimmon. Avrebbe avuto due figli: Patrizio e Giovanni.
Nel 1951 il segretario del “College of Piping” di Glasgow Thomas Pearston scrisse all’Ente provinciale del Turismo di Cremona per avere una conferma di quanto in Scozia si sapeva sulla discendenza cremonesi dei Mc Crimmon, cui apparteneva uno dei vicepresidenti del College, Calum. Pearston giunse a Cremona i primi di giugno ed appurò una notizia: nel codice del Bordigallo risultò che nel 1515 viveva nella soppressa parrocchia di Santa Maddalena un certo Bassiano del Bruno, ma non veniva ricordato alcun altro membro della famiglia. Il più antico membro rintracciato dal Cavalcabò è invece un certo Corrado o Corradino ricordato nel 1227. Purtroppo mentre la ricerca si infittiva, Agostino Cavalcabò morì, lasciando incompiuta la sua ricerca che si conclude con queste parole: “Nella prima parte fra i nomi dei pifferai di Cremona non ci è stato possibile rintracciare un Bruni: fra i nomi dei membri delle famiglie Bruni (o Bruno) che abbiamo riportato per i secoli XV e XVI mai ricorre il nome di Giovanni Bruni che, secondo le notizie tramandatesi in Iscozia, sarebbe stato il cremonese emigrato al principio del ‘500 e nemmeno il nome di un Giuseppe suo supposto padre”.
Ma in Scozia, dove l’origine cremonese dello strumento è ormai accettata da anni, prevale un’ipotesi differente sulle modalità con cui dalla città del Torrazzo la cornamusa si sarebbe spostata nelle Highlands.
Il ruolo del piper all’interno della società gaelica comportava una posizione di grande prestigio, ed era quindi naturale che l’arte del piping fosse tramandata dal padre ai figli. La prima – e più famosa – dinastia di piper fu quella dei MacCrimmon di Skye, piper del clan MacLeod di Skye per qualcosa come trecento anni. Si ritiene addirittura che furono proprio i MacCrimmon ad avere concepito il pibroch: prima del loro arrivo sulla scena scozzese, le bagpipes erano in fondo uno strumento primitivo, dal repertorio musicale molto semplice. La loro linea familiare comprende una serie di compositori, suonatori e insegnanti di pibroch che va dal XVI al XIX secolo. Il capostipite dei MacCrimmon divenne il piper personale del capo-clan dei MacLeod in un anno imprecisato del XVI secolo, presso il castello di Dunvegan. L’arte del piping venne trasmessa dal padre ai figli, cui venne donata dal capo-clan la bella e importante tenuta di Boreraig, alla sommità del lago Dunvegan: fino al 1773 il MacCrimmon College Of Piping a Boreraig divenne una sorta di mecca per i piper di tutta la Scozia. Le origini della famiglia MacCrimmon sono molto incerte: un MacCrimmon fa per la prima volta la sua comparsa tra i documenti della parrocchia di Glendale, in Skye, nel corso del XVI secolo. Per alcuni storici essi provenivano dall’isola di Harris, per altri erano originari dell’Irlanda, e alcune altre teorie li riportano infine, per assonanza del cognome, ad un’origine cremonese. In che modo? Le prime tracce storiche della presenza della cornamusa nelle isole britanniche risalgono ai primi del XIV secolo, quando la cornamusa compare nelle Canterbury Tales di Chaucer. 
La battaglia di Pavia
Quasi nulla però si sa riguardo alla comparsa dello strumento nelle Highlands. Dal XVI secolo si tramanda in Scozia la leggenda che tra le truppe che militavano nelle fila del re di Francia Francesco I ci fossero dei mercenari scozzesi. Il 24 febbraio del 1525 queste truppe si scontrarono nella gigantesca battaglia nota come Battaglia di Pavia, contro le truppe di Carlo V di Spagna. Quest'ultimo vinse la battaglia e le truppe francesi si ritirarono attraversando il nord-Italia e le Alpi per ritornare ai paesi di origine. La conferma che ci fossero degli scozzesi è certificata dal fatto che in Alta Val Canobbina, alcuni di questi si fermarono stanziandosi in un sito che sarebbe diventato poi il paese di Gurro. Bene, tra questi soldati, che invece rientrarono in patria, sembra ci fossero suonatori di pive provenienti dalla vicina Cremona. Costoro furono ospitati in Scozia, pare presso il potente Clan MacLeod, a Dunvegan, sull'isola di Skye, nelle Ebridi Interne. Dal loro nome deriverebbe quello della famiglia dei McCrimmon (MacChruimein, in Gaelico) che letteralmente vorrebbe dire "da Cremona". Venendo a Gurro è un piccolo paese situato in alta Valle Cannobina, il vasto territorio montano posto tra l'Ossola e il Verbano e confinante con il Canton Ticino. Il modo di vestire, gli usi ed importanti studi di glottologia testimoniano una certa affinità tra la popolazione di Gurro e quella della Scozia. Numerose sono le testimonianze a favore di questa tradizione: vie strette ed interessanti per la loro peculiarità, case antiche di uno stile che non si riscontra in nessun altro villaggio della valle. La struttura portante dei muri perimetrali è in legno, formata da un rettangolo intersecato da una croce di S. Andrea. Di Gurro e della sua affinità con la Scozia si occupò, negli ultimi anni, il colonello barone Gayre of Gayre and Nigg che volle donare alla popolazione di Gurro un quadro raffigurante S. Andrea, patrono della Scozia, come segno di amicizia tra gli abitanti di Gurro e la popolazione scozzese. Inoltre fece in modo di includere i gurresi in uno dei più prestigiosi clan della Scozia a cui egli stesso appartiene. Il costume delle donne di Gurro è bellissimo occorrono 14 metri di stoffa per confezionarlo la sottoveste è, manco a dirlo, in tessuto scozzese e di pregevole fattura.

mercoledì 7 novembre 2012

La Gioconda cremonese di Leonardo


Leonardo da Vinci non era per nulla indifferente al fascino femminile, come invece vorrebbe una certa maldicenza secolare. Anzi smessi i panni del pittore spesso indossava quelli più prosaici del libertino, trascorrendo il resto della giornata con una giovane prostituta cremonese. Ne era talmente invaghito che pensò bene di ritrarla in una versione meno nota e più scollacciata della Gioconda più conosciuta, appunto la cosiddetta “Gioconda nuda” una delle quali conservata oggi a Bergamo e considerata fino al tardo Seicento il ritratto di una meretrice. Il vago ed anigmatico sorriso della Gioconda “vera” lascia qui spazio ad un ammiccamento che il non più giovane Leonardo doveva ben conoscere e replicare in più di una versione. Ad ispirarlo in un modello poi seguito anche da Giulio Romano e Raffaello fu proprio la bella cremonese che esercitava il mestiere più antico del mondo. A squarciare il velo su questo Leonardo meno conosciuto è stato Carlo Pedretti, curatore della mostra vinciana. Il pesante interrogativo sui gusti sessuali di Leonardo si era già posto secoli addietro a Giuseppe Bossi, il segretario dell’Accademia di Brera, amico del Canova e di Carlo Porta, a cui era stato dato l’incarico di realizzare una copia del Cenacolo in grandezza naturale destinata ad essere riprodotta in mosaico per la chiesa degli Italiani di Vienna. Rovistando tra le sue carte pubblicate nel 1982, Pedretti qualche anno fa ha rinvenuto una noticina che, in poche parole, sementisce qualsiasi illazione sul maestro: “Che Leonardo amasse i piaceri – scriveva Bossi in quella noticina di due secoli prima – lo prova una sua nota riguardante una cortigiana chiamata Cremona, nota comunicatami da persone autorevole”. Imbarazzato dalla scoperta il povero Bossi per attenuare i toni aggunge: “Nè sarebbe stato possibile, ch’egli sì a fondo avesse conosciuto gl’uomini, e l’umana natura per rappresentarla senza, col lungo praticarla, tingersi alquanto delle umane debolezze. Ciò è avvenuto a tutti i più grandi e profondi conoscitori degli uomini: nè credo possibile senza ciò nominarli, o imitarli sia scrivendo che dipingendo” In realtà in nessuno degli scritti autografi di Leonardo vi è traccia di questa donna, ma nulla vieta di pensare che la persona autorevole che informa Bossi della cosa potesse essere a conoscenza di qualche manoscritto dell’Ambrosiana andato perduto in seguito alle spogliazioni napoleoniche. D’altra parte il nome della donna “Cremona” non lascia dubbi nè sulla sua origine, nè tantomeno sulla sua attività, svolta con ogni probabilità a Roma, dove poteva avere il fascino del prodotto importato. Qui Leonardo vi giunse quando ormai aveva più di sessant’anni, accolto dal fratello del papa Giuliano de’ Medici nel Belvedere Vaticano ed accompagnato dai suoi due assistenti tedeschi con cui aveva spesso discussioni. Questi due avevano allestito nelle stanze a loro disposizione una sorta di laboratorio per lavorare gli specchi che sarebbero serviti al maestro per i suoi esperimenti sullo sfruttamento dell’energia solare. Ma, osserva maliziosamente Carlo Pedretti, l’uso di quelle attrezzature sarebbe stato in realtà molto più prosaico e meno scientifico. La cosa era perfettamente comprensibile vista l’aria libertina che si respirava nella capitale, dove Raffaello e Giulio Romano si prodigavano nel rappresentare artisticamente quelle scene erotiche che poi sarebbero andate a illustrare i sonetti lussuriosi di Pietro Aretino. Ma un particolare in quelle scene che illustrano le performances della cortigiana ha attirato l’attenzione di Pedretti: l’uso di una acconciatura raffinata di ascendenza classica che farebbe pensare ad un parrucca. E proprio una parrucca di questo tipo Leonardo mise in testa alla sua “Leida” alla cui ideazione stava senz’altro lavorando durante il suo soggiorno romano: “Questa – scriveva il maestro – si pò levare e porre senza guastarsi”, come se l’avesse fatta provare alla sua modella. Una parrucca del tutto simile possiede anche la “Gioconda nuda”, un soggetto proprio pensato a Roma e ripetuto in un’infinita serie di copie e versioni. Proprio quello conservato oggi all’Accademia Carrara di Bergamo nel 1664, quando ancora  si trovava al museo Settala di Milano, era catalogato come il ritratto di una meretrice eseguito da Leonardo: “Mulier, creditur meretrix, opus magni illius pictoris Leonardo a Vincio”. Come se non bastasse un’altra versione dello stesso soggetto a cui si sono senza dubbio ispirati Raffaello e Giulio Romano cone le loro “fornarine”, realizzata da un artista della scuola di Fontainebleau e conservata al museo di Digione, rappresenta la nostra cortigiana nell’atto di portarsi una mano al petto tenendo tra le dita un medaglione ovale nel quale si sarebbe riconosciuto il profilo di Leonardo con un’iscrizione che reca la data del 1501.
La Gioconda nuda dell’Accademia Carrara di Bergamo si lega a Cremona anche per un’altra strana coincidenza. Agli inizi del Novecento l’opera si trovava presso un’antiquaria di Varese; nel 1909 veniva acquistata dal signor Cesare Pisoni (Soresina 1846-Milano 1924), un industriale e collezionista d’arte della nostra provincia, ma naturalizzato milanese. Fu donata da questo, insieme a molti altri dipinti dal Sei all’Ottocento, all’accademia Carrara di Bergamo, dove giunse il 20 ottobre 1924. Il soggetto si ispira ad un’invenzione di Leonardo, la cosiddetta “Gioconda nuda”, nota solo attraverso un disegno autografo dell’Ermitage, ma riprodotta in un gran numero di copie e varianti. L’esemplare in questione fu oggetto di un’accanita disputa attributiva. Inzialmente ritenuta autografa di Leonardo, venne poi riconosciuta come risalente al XVII secolo. Ascritta dapprima all’ambiente di Jean Bruegel des Velours (1568-1625) è stata successivamente attribuita a Giulio Cesare Procaccino (1574-1625), mentre i fiori ai lati della figura su considerano eseguiti dal congiunto Carlo Antonio. Il dipinto è un olio di cm. 79x61. Sul verso vi si trova un sigillo con gli stemmi delle famiglie milanesi Cravenna e Settala. Il particolare lo fece collegare ad un esemplare già citato nel catalogo del museo Settala di Milano al n. 33, del 1664. Non ci sono note, al momento, ulteriori attribuzioni. Presso l’archivio della Carrara di Bergamo sono conservati diversi documenti che riguardano il dipinto: in particolare una lettera del 1925 del celebre architetto Luca Beltrami, conoscente di Cesare Pisoni, che l’aveva a suo tempo osservato in casa del collezionista a Milano.
Tornando alla “Gioconda nuda” c’è chi sostiene che l’opera potrebbe essere un ritratto di Gian Giacomo Cappotti detto il Salai (cioè “diavoletto”), l’allievo prediletto di Leonardo e ritenuto, da chi sostiene la presunta omosessualità dell’artista, il suo amante. Gli indizi sulla possibile omosessualità di Leonardo sono legati solo ad un processo che subì per sodomia, nel quale venne scagionato perché la denuncia era stata presentata ìn forma anonima, e quindi non valida, e sulla lunghissima convivenza con Salai, a proposito della quale lo scrittore d’arte Gian Paolo Lomazzo, pochi decenni dopo la morte di Leonardo, fece dire all’artista in un dialogo alcune cose “compromettenti”. In effetti, se guardiamo con attenzione, l’aspetto della donna è piuttosto mascolino, con poco seno e le braccia nerborute, e l’effetto generale è piuttosto ambiguo. 
A lasciare indizi in tal senso contribuisce anche la somiglianza di questo dipinto con il san Giovanni Battista di Leonardo della Pinacoteca Ambrosiana, un’opera anch’essa dall’aspetto ambiguo, in cui il protagonista è molto simile alla “Gioconda nuda”. Il Battista, come si può verificare nei Vangeli, era senza dubbio ben diverso da questa figura efebica che sfoggia un sorriso malizioso, ed è possibile secondo alcuni che anche qui Leonardo abbia ritratto il suo allievo prediletto. Di certo il Salai fu una figura importante nella vita di Leonardo che lo accolse nella sua bottega a dieci anni, considerandolo come un figlio. Pur di temperamento irrequieto e poco diligente, mostrò da subito un gran talento diventando l’ombra del maestro, così da indurre il Vasari a scrivere di lui: “Prese in Milano Salai Milanese il qual era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo belli capelli ricci e inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto: e a lui insegnò molte cose dell’arte, e certi lavori, che in Milano si dicono essere di Salai, furono ritocchi di Lionardo”. Artista di discreto valore Salai riprende gli insegnamenti del maestro; una delle pochissime opere attribuite a lui con certezza, dove è visibile, e ormai certa, anche la mano di Leonardo, è appunto la famosa “Giocoda nuda” appartenuta al cardinale Fesch ed oggi di proprietà della fondazione Primoli. Qui Monna Vanna (come è stata chiamata questa versione della Gioconda), sembra possedere la doppia natura umana (come il san Giovanni), sia maschile che femminile, quale androgino perfetto, anche se secondo alcuni non sarebbe difficile vedervi la fisionomia dello stesso Salai. Ultimamente però Renzo Manetti, esperto di iconologia, nel saggio “Il velo della Gioconda. Leonardo segreto” uscito recentemente presso l’editore fiorentino Polistampa, affaccia l’ipotesi che Leonardo da Vinci avesse dipinto due Gioconde, una delle quali, ora scomparsa, era ritratta nuda. Accanto all’enigmatico ritratto di Monna Lisa esposto al Louvre, l’artista scienziato rinascimentale avrebbe quindi dipinto una seconda Gioconda con la precisa intenzione di formare un dittico e rendere omaggio ai due volti di una stessa divinità, nientemeno che Venere. Comunque sia a noi piace pensare che la modella di questa variazione più scollacciata dell’enigmatica figura leonardesca sia stata proprio la nostra “Cremona”, che il maestro ha strappato all’anonimità a cui l’avrebbe relegata la sua condizione, eternandola per sempre con l’arte.

martedì 6 novembre 2012

San Giobbe e l'ospedale perduto


Uno straordinario affresco del Cinquecento comparso misteriosamente in un garage di via dei Mille ed un architetto cremonese che decide di saperne di più fino a supporre di trovarsi di fronte alle vestigia del misterioso Ospedale di Sant’Agata, ricordato fin dall’XI secolo ma di cui nel tempo si erano perse le tracce. Tutto inizia quasi quarant’anni fa, nel 1974 quando, al numero 11/a di via dei Mille, cessa l’attività una bottega di macelleria. Il proprietario dello stabile, l’architetto Aurelio Borrini, decide allora di ristrutturare la propria abitazione, compresa la ex bottega, dove il muro di fondo tampona due archi retti da colonne in cotto su un altissimo plinto, che a loro volta costituiscono un piccolo ambiente diviso da tramezze. Viene rimosso il muro di tamponamento e liberate alla vista le due colonne ed il lavoro procede fino a quando, rimuovendo le mattonelle che rivestono i muri, compaiono alla base del muro perimetrale destro due buchi, una sorta di ampie feritorie regolari che trapassano la spessa parete da parte a parte. Poi le prime tracce di una pittura in parte caduta, soprattutto alla base, dove sotto l’intonaco dipinto compaiono vistose tracce di nerofumo che interessano quasi l’intera parete. L’affresco fu sicuramente realizzato per nascondere le tracce di quell’incendio che aveva annerito la parete. Ma perchè? Mano a mano che procede la pulitura la scena prende forma. Sulla sinistra giace su un cumulo di una sostanza imprecisata una figura nuda di santo con il capo aureolato ed il corpo cosparso di piaghe a cui rivolge, tendendogli una sorta di pertica o pala di legno, un’altra figura vestita di rosso che con la mano libera mostra di turarsi il naso. La scena si svolge all’aperto in un paesaggio montano, dove si nota però sullo sfondo la presenza di un borgo. Una fascia dipinta sulla parte superiore non lascia dubbi: MDXXIII die XV frevaro. Quindici febbraio del 1523. Più sopra, alla sommità dell’arco che incornicia la scena, in un ovale la figura di Dio benedicente. L’iconografia è nota: raffigura san Giobbe e le sue note disgrazie. La tradizione cristiana, lo considera modello di santità e spesso anche tipo del Cristo sofferente. Dai Padri antichi in genere è chiamato “profeta” e da qualcuno anche “martire” per le sue molte sofferenze. Il suo esempio di straordinaria pazienza fu proposto all’imitazione dei fedeli già da S. Clemente Romano e poi da S. Cipriano da Tertulliano e da tanti altri, sia in Oriente sia in Occidente. La sua immagine, poi, ricorre spesso negli affreschi degli antichi cimiteri cristiani e in numerosissimi sarcofagi d’Italia e della Gallia. La Bibbia narra che Giobbe era al colmo della ricchezza e della felicità quando improvvisamente fu colpito da una lunga serie di disgrazie che lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli. Colpito da una ributtante malattia che lo riduce tutto una piaga, Giobbe non perde la sua calma, neppure davanti allo scherno e alla derisione della moglie. Cacciato di casa, è costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio. 
L’altra figura è sicuramente quella della moglie che, turandosi il naso per la puzza sia del letamaio che delle piaghe del povero Giobbe, offre al malato del cibo mediante una lunga pala che le evita di avvicinarsi. E’ una scena ricorrente nell’iconografia del santo, come quella che compare su una icona orientale che riproduciamo.
Giobbe fu venerato anche in Occidente. Gli furono dedicate delle chiese, come a Venezia, a Bologna e in Belgio, degli ospedali, dei lebbrosari. Ed è probabilmente la parete di un ospedale quella su cui, nel 1523, fu dipinta la scena per nascondere le tracce del fuoco. Acceso, con ogni probabilità dagli infermi, appestati o lebbrosi, che sostavano lungo quel muro in attesa che una mano pietosa passasse loro un tozzo di pane dalle due feritoie. Originariamente, infatti, la loggia sostenuta dalle due colonne all’esterno del muro perimetrale dell’ospedale dava su un vicolo, già chiuso al tempo della mappa del Campi nel 1573, ed oggi ricostruibile seguendo le tracce lasciate nel percorso lungo i piccoli cortili delle case retrostanti.
L’ospedale potrebbe essere quello di Sant’Agata, già ricordato nella bolla papale di Gregorio VII nel 1077 che secondo il Bonafossa sarebbe stato collocato originariamente nella vicinia di Santa Croce, dove oggi è piazza Castello, e poi demolito da Barnaba Visconti per far posto al castello. Che fosse trasferito in un’altra sede, messa a disposizione da qualche nobile donatore, è un’ipotesi sicuramente possibile che il nostro affresco potrebbe confermare.
Ma torniamo al nostro Giobbe. La sua figura, in realtà, non è molto frequente nella storia dell’arte. Il ciclo più noto è conservato nella navata sinistra della collegiata di San Gimignano, realizzato da Bartolo di Fredi tra il 1356 e il 1367. Le rappresentazioni iconografiche più note sono invece comprese tra l’epoca rinascimentale e il primo Seicento. Ricordiamo Carpaccio, Albrecht Dürer e il pittore francese caravaggesco Geroge de la Tour che ha raffigurato la scena decisamente più nota, con Giobbe seduto sul letamaio che viene vistato dalla moglie. In realtà quest’ultima è l’iconografia più recente. La presenza del letamaio, infatti, è molto importante perché la fonte biblica canonica parla invece di una montagna di cenere, su cui Giobbe si sarebbe buttato in segno di totale sottomissione di sé, rispetto al volere di Dio, al quale umilmente chiedeva aiuto. Invece la versione con il letamaio, che deriva dal Vangelo di Giobbe, un testo apocrifo conosciuto anche in ambito musulmano, vuole probabilmente significare un fattore in fondo positivo, in quanto il letamaio, nella cultura contadina, viene visto come luogo di rigenerazione dove addirittura, come nel caso dei vermi, può nascere la vita. Secondo una leggenda contadina, infatti, i vermi usciti dalle piaghe di Giobbe sarebbero saliti su una pianta trasformandosi in bachi da seta. In Brianza, ad esempio, in occasione della festa del 10 maggio venivano benedette le cosiddette maestà, delle stampe a carattere religioso che venivano appese nelle camere dove si allevavano i bachi da seta. Non a caso San Giobbe era invocato proprio a protezione di quel prezioso baco da seta che, dopo un duro lavoro, permetteva ai contadini delle entrate importanti in un’epoca in cui la vita era molto dura. A Cassano le prime vendite di bozzoli o cavalé risalgono ai primi anni del Cinquecento, e probabilmente già allora il santo veniva invocato, come lo invocavano migliaia di contadini in tutta Italia, dalla Lombardia dalla Calabria, dalla Toscana al Veneto. E’ piuttosto bizzarro questo accostamento di Giobbe ai bachi da seta: gli studi condotti da Claudio Zanier hanno dimostrato che ciò nasce dalla rilettura dei racconti biblici in Palestina in età medievale, che si diffonde dapprima nel mondo panarabo, poi in quello iranico e infine, attraverso Venezia e il mondo greco, anche in Italia. Nei racconti popolari viene sottolineata la perseveranza di Giobbe, nonostante le disgrazie e viene data enfasi al lieto fine. Nel contempo gli stessi racconti, così come l’iconografia medievale, sottolineano come dalle piaghe di Giobbe nascano i vermi, gli stessi che i contadini identificavano  con i bruchi del baco da seta. Con estrema naturalezza la civiltà contadina lo elegge proprio protettore per questa attività. Tutta l’iconografia si adegua a questa nuova interpretazione, che è certamente difforme dalla posizione della Chiesa ufficiale, soprattutto dopo la Controriforma, quando vengono abbandonati i santi vetero testamentari. La forza di questo culto fu tale che sorsero chiese società, confraternite a lui dedicate in moltissime regioni italiane. Così nel 1619 i padri agostiniani di Spilambergo, nel modenese, poterono portare in processione un quadro di san Giobbe con i bachi e collocarlo in chiesa solennemente, non senza aver prima dato indicazioni su come allevare i bachi. Già nel 1400 Giobbe era stato dipinto in un altro eremo agostiniano, quello di Lecceto, e anche qui se ne stava seduto in mezzo a un mucchio di foglie e letame con tanti vermicelli a fargli compagnia. In Slovenia San Giobbe venne assurto a protettore degli apicoltori. L’iconografia, comprese le numerose immagini ritratte dalla tradizione popolare sui frontali delle arnie slovene sia moderne che antiche,  lo dipinge come un vecchio barbuto seduto su un cumulo di letame, con la pelle completamente ricoperta da bubboni da cui escono larve che daranno origine ad api da miele. In epoca paleocristiana Giobbe viene assimilato a un santo e raffigurato come un anziano penitente, seminudo, di solito calvo con una fluente barba bianca, con il corpo piagato e facilmente confondibile con altri santi eremiti come san Gerolamo e sant’Onofrio. 
Nel nostro caso, invece, Giobbe ha le sembianze di un giovane uomo, con il viso incorniciato da una leggera barba, L’autore, con ogni probabilità, è più sensibile alla tradizione che prefigura nel patriarca dell’Antico Testamento le sofferenze di Cristo e, di conseguenza, lo raffigura secondo questa iconografia. L’assenza dei bachi da seta lascia propendere per l’interpretazione  più tradizionale di Giobbe, venerato qui come protettore delle malattie della pelle. L’autore mostra di essere estraneo ai grandi modelli artistici cronologicamente più vicini, come ad esempio la Meditazione su Cristo morto de Carpaccio (verso il 1510), o la pala di san Giobbe del Giambellino, del 1487, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ma anche ai modelli più prossimi geograficamente, come l’affresco con San Giobbe, S. Antonio abate e San Bernardo nel santuario della Madonna della Fontana di Casalmaggiore dei primi decenni del XVI secolo, ma sembra riferirsi piuttosto all’iconografia più diffusa del santo, così come è visibile, ad esempio, nelal xilografia del tedesco Hans Baldung Grien, allievo di Dürer, del 1509. In conclusione, un artista popolare che esegue un soggetto conosciuto, seguendo le indicazioni di un committente senza troppe pretese, con il fine apotropaico di proteggere gli abitanti di quella casa sul cui muro fu dipinto nel febbraio del 1523. Resta da capire se possa trattarsi davvero del perduto Ospedale di Sant’Agata o piuttosto di un laboratorio di tessitura, come lascerebbe intuire la presenza di un albero posto alle spalle di Giobbe, sul quale, secondo la tradizione contadina, si sarebbero inerpicati i vermi prodotti dal letame. La perdita della parte inferiore dell’affresco, distrutta dall’incendio, rende impossibile dirimere la questione.

sabato 3 novembre 2012

Ascelino alla corte del Gran Khan

Papa Innocenzo IV invia i frati ai Tartari

Marco Polo è da molti considerato come uno dei più grandi esploratori di tutti i tempi. Ma prima che con il padre Nicolò e lo zio Matteo giungesse in Cina nel 1271, era stato preceduto da un frate domenicano cremonese, Ascelino, che nel 1247 fu il primo italiano ammesso al cospetto del Gran Khan.
Alla fine del 1236 un esercito mongolo, ingrossato da contingenti turchi, per ordine di Ögödei successore del grande Gengis Khan diede inizio all'invasione dell'Europa, spingendosi fino in Polonia, in Ungheria, in Slesia, nei Carpazi, seminando ovunque terrore e devastazione. La sorpresa fu totale, le resistenze ben presto infrante, e, senza la morte di Ögödei l'inverno del 1241, che fece rifluire l'armata mongola, non si può dire quel che sarebbe stato dell'Europa, che visse da allora nel terrore di un ritorno degli uomini delle steppe. Ecco perché una delle questioni principali che figurarono nell'ordine del giorno del Grande Concilio, indetto a Lione dal papa Innocenzo IV nel 1245, invitava a cercare il "rimedio contro i Tartari". Per questo si decise di inviare degli emissari presso il capo dei Mongoli, onde persuaderlo a convertirsi al cristianesimo, invitandolo, se non altro, a porre fine agli attacchi. I tre legati ad Tartaros furono i domenicani Andrea di Longjumeau e Ascelino da Cremona giunti al cospetto del comandante tartaro il 4 agosto 1247, e il francescano Giovanni di Pian di Carpine. Sulla missione di Ascelino, legato intransigente che rifiuta di genuflettersi di fronte al generale Baiju o Baiothnoy sfuggendo per miracolo alla condanna a morte, siamo informati dalla relazione del suo compagno Simone da St. Quentin. Ad accompagnare il nostro Ascelino, oltre i già citati Andrea di Longjumeau e Simone, furono i frati Alberto ed Alessandro a cui si aggiunse poi Guiscardo da Cremona. Attraverso la Siria, la Mesopotamia e la Persia, giunsero fino nella regione della Corasmia, a sud-est del lago di Aral. La cronaca del viaggio comparve la prima volta tradotta in italiano nel 1537 col titolo: "Opera dilettevole da intendere nella qviale si contiene doi itinerari in Tartaria per alcuni frati dell'ordine mirare e di San Domenico cioè frate Giovanni e frate Simone mandati dal papa Innocentio IV nella detta provincia di Scithia per ambasciatori" stampata a Venezia da Antonio de Nicolini da Sabio in 8°, e 56 fogli, con una incisione in legno sul frontespizio. Questa edizione italiana rarissima, passò poi nella raccolta del Ramusio Viaggi e Navigazioni, in appendice  della 2ª edizione del 1574, e nelle successive.
Mongoli in battaglia

"L'anno del Signore 1247, nel giorno della translazione di san Dominico, primo padre de' predicatori, frate  Ascelino , mandato dal papa per ambasciatore, arrivò ne l'esercito de' Tartari, cioè nella Persia, dove era Baiothnoy capitano". Inizia con queste parole la narrazione di Simone da San Quintino. Il capitano siede vestito d'oro in un padiglione circondato dai suoi dignitari. Alcuni di essi, accompagnati da un consigliere e da interpreti, vengono inviati a conoscere i nuovi venuti. Le parole di Ascelino, che si professa emissario del più grande sovrano del mondo,il papa,  destano immediatamente lo sdegno dei dignitari imperiali, che chiedono al frate come mai non sia a conoscenza del loro potere. Ma impertubabile il nostro frate spiega semplicemente di esser venuto a chiedere la cessazione delle violenze contro i cristiani. Detto fatto gli ambasciatori tornano al padiglione ed informano il comandante della cosa, poi, cambiatisi d'abito, tornano dai frati e chiedono che doni abbiano portato con sè. Ovviamente i frati rispondono di non aver portato nulla. Nuova ambasceria dei consiglieri e degli interpreti, nuovo cambio d'abito e nuova spedizione dai frati che a loro volta insistono perchè sia consegnata al comandante la lettera di papa Innocenzo IV. In realtà, spiega il cronista, che l’insistenza degli ambasciatori tartari era dovuta semplicemente alla necessità di avere informazioni sulla preparazione di una nuova crociata di cui avevano avuta notizia attraverso i commercianti veneziani. Tornati dunque a mani vuote gli ambasciatori si rivestono un’altra volta e si recano di nuovo dai frati con un'altra richiesta, decisamente più difficile da soddisfare delle precedenti: l’unico modo per poter consegnare le lettere è  sottomettersi all’adorazione del comandante. La richiesta lascia i frati imbarazzati, combattuti tra il peccato di idolatria ed il pericolo di lasciarci la pelle, ma giunge in loro aiuto frà Guiscardo cremonese. Come racconta il cronista, Guiscardo era esperto delle tradizioni mongole, dal momento che era vissuto per sette anni in Georgia, nella città chiamata "Triplheis", per cui non si lascia intimorire e rassicura i compagni:
"Di far idolatria a Baiothnoy nulla dubitate - dice - però che non intende voler questo da voi, ma, in segno che 'l papa gli sia soggetto e tutta la Chiesa romana, che per comandamento di Chaam credono soggiogare, vuol li sia fatto questa riverenzia da qualunque capita qui a lui con ambascierie". Nulla da fare: la decisione dei frati è irrevocabile. Piuttosto di omaggiare il comandante tartaro si farebbero decapitare. Tocca ad Ascelino informare gli ambasciatori della loro decisione, dicendo che i frati sarebbero semplicemente disposti a chinare il capo in segno di rispetto, ma addirittura a baciare i loro piedi nell’eventualità che decidessero di convertirsi. Gli ambasciatori, frementi d'ira, corrono a riferire la cosa al comandante che ordina di uccidere immediatamente i frati. I consiglieri però non vanno d'accordo sulla pena da infliggere. Racconta il cronista: "Alcuni de' suoi consiglieri dicevano: 'Non amazziamo tutti, ma solamente due, e gli altri mandiammo indietro al papa'. Era l'opinione d'alcuni scorticar il principale, ed empita la pelle di paglia mandarla per li altri al pontefice; altri volevano che due frustati per tutto l'esercito s'occidessero, e li compagni riservassero fino alla venuta de' Francesi. Alcuni dicevano di menar per l'esercito a veder la potestà e moltitudine di gente, e ponergli nanti le machine che iacevano nel piano, e così paressino uccisi non da loro, ma da quelli in strumenti". Alla fine prevale il parere del comandante tartaro di decapitarli. Ma, quando la sentenza pare ormai irrevocabile ecco arrivare la prima delle sei mogli di Baiothnoy ed i consiglieri preposti alla cura degli ospiti. La moglie fa leva sull'avidità del marito, che se si diffondesse la notizia dell’uccisione rischierebbe di perdere tutti i doni dei potenziali visitatori. Ed uno dei consiglieri gli ricorda: "Non ti ricorda come si adirò verso di me Chaam sopra la morte di quello messo che comandasti l'ammazzasse, il core del quale, cavato dalle viscere, per metter paura agli altri che venissero qui e udissero questo, mel facesti portare nel pettorale del cavallo per tutto l'esercito publicamente? Se mi comandarai ch'io ammazzi quelli, non gli ammazzerò, ma son per fuggire da te e, conservando la mia innocenzia, velocemente andar a Chaam e accusarti della morte sua nella corte plenaria, come malefico e inaudito omicida". Il comandante tartaro è perplesso e rimanda gli ambasciatori dai frati per sondare il terreno in cerca di qualche altra onorevole via d'uscita dall'impasse. Al che Ascelino, togliendosi il cappuccio: "Così - dice - faremo, e questo è il modo di onorar i nostri maggiori, e così a Baiothnoy non altrimenti, benché ne fusse fatto violenza, siamo per fare". Inizia una lunga discussione sulle "tecniche" di adorazione, intanto il tempo che passa e l'interesse crescente verso i frati gioca a loro favore. Gli ambasciatori chiedono come i cristiani esercitino l'adorazione e perché pur disposti ad odorare "legni e sassi" si rifiutino invece di venerare una persona in carne ed ossa come il loro comandante. E Frà Ascelino, per nulla intimorito, è pronto nella risposta: "Li cristiani non adorano legni e sassi, ma il segno della croce formato in quelli, per il nostro Signor Giesù Cristo sospeso in essa, il quale l'ha ornata delle membra sue come di preziose gemme e col suo sangue consecrata, dove acquistò la nostra salute. Ma il vostro signor a niuno modo per le ragion sopradette potemo adorare, quantunque con ogni tormento fossimo cruciati". Resta agli ambasciatori un'ultima chance e, consultato il comandante, giocano dunque il tutto per tutto: che i frati vadano alla corte del Khan, vedano la sua potenza e le sue ricchezze e gli presentino le lettere del papa e riferiscano a lui, una volta ritornati a Roma, quanto hanno visto con i loro occhi.
Tartari durante un trasferimento

Ma frate  Ascelino rifiuta anche questo compromesso. La disputa prosegue per l’intera giornata ma alla fine, però, i frati l'hanno vinta. Gli ambasciatori richiedono le lettere del papa da inoltrare a Baiothnoy, le mostrano al comandante e poi propongono ai frati, con l'aiuto di interpreti, di tradurle prima in persiano e poi in mongolo perché possano essere comprese. Narra ancora Simone di San Quintino; "Allora frate  Ascelino , con tre suoi compagni e con l'interpreti e scrittori del prince, dilongossi dalla moltitudine degli astanti ed espose le lettere a' translatori di parola in parola, cioè scrivendo li notarii persiani quello che da' Turchi, Greci e frati li era detto.
Per tanto, transcritte le lettere e in tartaresco lette a Baiothnoy, e ritenute col sigillo appresso di sé, mandò li baroni con uno cancellier grande e sollenne di Chaam che al presente si partiva, li quali dissero: 'Comanda a voi Baiothnoy che si debbino elegger due li quali vadino a Chaam con questo suo servitore, che sicuramente si condurrà sino alla sua corte; e venuti daranno le lettere alla sua presenzia, e ciò che aranno veduto della sua gloria riferiranno al papa'." Ma Ascelino è un duro: spontaneamente non andranno mai alla corte del Khan, dovranno legarli e costringerli con la forza per separarsi dai loro confratelli. Non si lascia blandire neppure dal cancelliere che, giunta la sera, chiama i frati e legge loro le lettere che il Khan ha inviato perché siano fatte conoscere in Occidente. Dopodichè possono far finalmente ritorno ai loro alloggiamenti, distanti un miglio dal padiglione del comandante. Dopo quattro giorni stanchi di attendere i due cremonesi Ascelino e Guiscardo tornano a corte e chiedono di avere le risposte alle lettere papali ed il salvacondotto per poter fare ritorno in Italia, Ma i baroni non sembrano intender ragioni. I frati aspettano l'intera giornata ma non succede nulla. L'attesa si protrae anche nei giorni successivi "scherniti da' Tartari e riputati da quelli como vilissimi garzoncelli, né degni d'aver risposta, anzi come cani". Per nove settimane i frati attendono pazientemente udienza. "Ma li frati, con umiltà sopportando la sua malizia e indegnazione, mutarono con ingegno la necessità in virtude", aggiunge il cronista Simone. La sentenza di morte viene sospesa per cinque settimane, vengono scritte le lettere per il papa e informati gli ambasciatori e si decide di rilasciare i frati "il giorno di s. Giovambattista; ma il terzo giorno seguente rivocò quello aveva deliberato, dicendo aver inteso come veniva un grande e solenne ambasciatore da Chaam, figliuolo d'Iddio, detto per nome Augutha". Secondo quanto si raccontava questo sarebbe stato il nuovo signore delle Georgia, ma erano molti quelli che speravano che, in realtà, con la sua venuta si sarebbe risolta la spinosa questione dei frati ostaggi. Nel frattempo i frati “Stavano fermi e immobili, avendo per sostentazion del corpo un poco di pane e acqua a bastanza; e alcuna volta, per non averne, digiunando fino a sera mangiavano latte di capra e vacche, forse ancor alle volte di cavalle, e più spesso avevano acqua pura; e per non esser a sufficienza mescolavano col latte agro, senza far menzione alcuna di vino".
Ma si avvicina l'inverno e Ascelino teme che, con la brutta stagione, possa perdere il passaggio sulla nave che gli consentirebbe il ritorno a casa. Si reca dunque a trovare il gran consigliere della corte pregandolo di sollecitare il comandante al rispetto delle sue promesse. Ma proprio quando sembra che Baiothnoy sia ben disposto nell'assecondare le richieste del frate ecco giungere all'accampamento lo stesso giorno Augutha in persona. Tutti si dimenticano un'altra volta dei nostri poveri frati. Sette giorni durano i festeggiamenti per l'arrivo del potentato georgiano. Finalmente "l'ottavo, che fu la festa di santo Iacobo, diedero licenzia a' frati che si partissero con le littere di Baiothnoy e Chaam, che dicono lettere d'Iddio, e insieme con messaggieri che mandavano al papa". Il viaggio della delegazione papale all'accampamento mongolo era durato un anno. Ma per Ascelino la missione si protrasse per ben tre anni e sette mesi. Frate Alessandro e frate Alberico stettero con lui poco meno di tre anni; frà Simone di San Quintino, il nostro cronista, due anni e sei settimane; frà Guiscardo cinque mesi. "Sono, come si dice, da Achon insino a quello esercito de' Tartari, in Persia, 58 diete".