martedì 30 maggio 2017

Il sogno del porto di mare

Il progetto del porto milanese del 1917

Sulla linea gialla del Metro milanese, tra le stazioni di Corvetto e Rogoredo, c'è una fermata dal nome curioso, per una città che dista cento chilometri dalla spiaggia più vicina. Porto di Mare si trova in via Cassinis all’altezza di via Fabio Massimo e di via Gaggia e all’uscita si trovano solo i casermoni in cemento della tipica periferia estrema milanese, il raccordo verso la tangenziale Est e un parco. Nessuna traccia di mare, ovviamente: il nome deriva da una vasta area del sud est di Milano che venne identificata nel 1907 dal Genio Civile, su incarico del Comune, per ospitare un nuovo porto artificiale per la città.
Già nel 1902, l’ingegner Paribelli del Genio Civile aveva elaborato un progetto per la realizzazione di un grande porto fluviale a sud della città, nella zona di Rogoredo, già punto di raccolta delle acque reflue della città che poi confluivano nel Lambro Lo sviluppo dell’idea della costruzione del porto da destinarsi alle necessità delle industrie e dei commerci cittadini, segnalò l’esigenza di creare un porto commerciale, con diversi bacini disposti a pettine, ed un porto canale di utilizzo industriale.
Un grande porto che avrebbe realizzato il sogno di collegare il cuore della Lombardia al mare, attraverso Cremona e il Po. Un sogno che fu sul punto di concretizzarsi cent'anni fa. La darsena era infatti ormai insufficiente per la mole enorme di materiali trasportati via barconi dal Po e dal Lago Maggiore, tramite rispettivamente il Naviglio Pavese e il Grande. Oltre 70 imbarcazioni da 40/80 tonnellate, un numero superiore a quello di porti affermati come Brindisi, Bari e Messina, intasavano i navigli. Si trattava però di imbarcazioni di modesta portata molto inferiori ai battelli di 600 tonnellate che percorrevano i canali francesi e che avrebbero potuto navigare da Milano a Venezia lungo il Po. Il Pavese era caratterizzato da 12 chiuse per superare il dislivello che rallentavano enormemente il tragitto. Anche il percorso dal Lago Maggiore era lunghissimo, giorni di navigazione e traino. Inoltre il piano regolare Beruto del 1884 prevedeva la scomparsa dei canali dal centro città. 
Il Genio Civile presentò quindi il progetto di una enorme serie di darsene localizzate nel punto ove tutte le acque di Milano, di superficie e di falda, tendono a colare, la zona a sud dell'attuale Piazzale Corvetto. Nel progetto iniziale il grande bacino aveva 5 enormi moli di attracco, e sarebbe stato collegato con il Po tramite il canale Milano-Cremona. Nel 1917 infine il Comune approvò il progetto e stanziò il primo denaro. I lavori iniziarono subito mentre il progetto subiva alcune modifiche, con l'allargamento del bacino e la riduzione dei moli a 4, mentre il canale industriale continuava verso nord allacciandosi alla Martesana passando ad est dell'Idroscalo. Linee ferroviarie apposite avrebbero connesso il porto con la stazione di Rogoredo e di Porta Romana.

Il progetto del porto
di Cremona del 1911
Contemporaneamente anche a Cremona, dove l'interesse per la navigazione interna era rinato grazie agli studi del senatore Giovanni Cadolini, pubblicati nel 1909 ma risalenti a qualche anno prima, nel 1911 viene redatto un primo progetto per la realizzazione di un moderno porto fluviale promosso dal Comitato cremonese di navigazione interna. “Ed è venuta anche la volta di Cremona! - scriveva l'ingegnere Pietro Bortini – Cremona, la città tranquilla e serena che il gran fiume dolcemente bacia, si è pure svegliata, e buon per essa se l'ardore che oggi la infervora troverà anche per l'avvenire la fiamma animatrice. Cremona è in posizione per natura privilegiata: Milano, la regine dall'industria e del commercio da una parte. Mantova, la futura Mannheim d'Italia dall'altra. Mantova vuol conquistare il mare, Milano vuol raggiungere Mantova: la grande arteria deve necessariamente passare per Cremona! Dalla capitale lombarda giunti a Pizzighettone si può arrivare a Cremona per due vie diversissime sia per principio informatore, sia per diversità assoluta di tracciati. Da Milano a Pizzighettone si arriva per canale navigabile ormai progettato dalla provincia di Milano; da Pizzighettone a Cremona, tanto si può venire per via d'acqua naturale e convenientemente sistemata, quanto si può continuare il canale Milano-Lodi-Pizzighettone”. L'area individuata per la realizzazione del porto fluviale era compresa tra la linea ferroviaria Cremona-Borgo San Donnino, lo Stradone Passeggio e la strada di circonvallazione che univa porta Po a porta Milano. Il porto interno, completo di tre bacini, avrebbe avuto uno sviluppo di banchine d'approdo di 1500 metri, lo specchio d'acqua una superficie di 55 mila metri quadrati e bacini e piazzali avrebbero occupato un'area di 200 mila metri quadrati. «L'accesso dalla città al porto – scrive Bortini – come ben appare dalla planimetria generale, risulta comodissima. Per chi esce da porta Po, non ha che da scendere lateralmente allo Stradone Passeggio ed è subito alle vicine calate: uscendo invece da porta Milano o venendo dalla stazione si segue la circonvallazione e due comode strade, una delle quali limitante il fianco degli approdi e tracciata nel progetto di piano regolatore per Cremona dell'ing. Remo Lanfranchi, conducono al porto. Il tram pure vi ha facilissimo accesso allacciandosi da una parte alla circonvallazione e dall'altra alla linea Cremona-Piacenza sullo Stradone Passeggio.
L'allacciamento ferroviario pure è in ottime condizioni; infatti mente non impedisce menomamente il transito sulle calate adibite alle tramvie e ai carri ordinari, s'innesta alla linea Cremona-Borgo S. Donnino appena prima d'arrivare al passaggio a livello della strada provinciale per Milano sviluppandosi per una lunghezza di binario di metri 600 circa co curve i cui raggi non sono inferiori a metri 200 e colla pendenza del 7 per mille.
Finalmente la posizione e l'orientamento del progettato porto è pure adatta per ricevere l'eventuale linea navigabile artificiale Pizzighettone-Cremona, sia come stazione di testa, sia come stazione di transito. Infatti il canale Pizzighettone-Cremona sottopasserebbe il rilevato della ferrovia Cremona-Borgo San Donnino nel punto stesso in cui è previsto il sottopasso del canale alimentatore (dato che venga preferito questo sistema a quello d'alimentazione meccanica), derivato dal Morbasco. Appena attraversato tale rilevato il canale si biforca; una ramo corre in porto e l'altro va ad allacciarsi al canale che conduce al porto esterno. Se poi la line navigabile artificiale si dovesse continuare a valle fino a Casalmaggiore o per Tagliata sistemato fino all'Oglio e a Mantova, il porto di Cremona diventerebbe una vera stazione laterale alla grande arteria Venezia-Milano. In questo caso fra il porto e lo Stradone Passeggio il canale navigabile verrebbe attraversato da un ponte girevole».

In realtà Bortini aveva studiato altre due ubicazioni che, per motivi diversi, non vennero prese in considerazione. La prima prevedeva la realizzazione del porto a nord della ferroviaria Cremona-Borgo San Donnino, l'altra nell'area delimitata dalla strada chiamata “del porto”, dall'argine maestro del terzo comprensorio, dallo Stradone Passeggio e dal rilevato delle fornaci Frazzi e di via Del Sale. Nella prima soluzione il canale di comunicazione con il Po si sarebbe affacciato sul fiume nel punto dove sfociava il Riglio, “posizione veramente ottima – scriveva Bortini – essendo difeso a monte e a valle ed in diretto contatto col principale canale del fiume. Il porto però non sarebbe molto comodo alla città; difficile risulterebbe l'accesso al tronco di canale limitato dall'argine maestro e dalla sponda del fiume, che, come vedremo, deve costituire una parte importante dell'opera; finalmente il manufatto del tiro a segno e la cascina Quadri rappresentano due ostacoli non trascurabili dovendo occupare l'area in parola: D'altra parte riuscirebbe facile il raccordo ferroviario, quantunque sarebbe necessario deviare la rogia che presentemente scorre parallela e subito a monte del rilevato ferroviario della Cremona-Borgo. Ottima pure la posizione per l'arrivo i porto dell'eventuale canale Pizzighettone-Cremona». L'altra proposta, invece, venne tralasciata per l'impossibilità di realizzare l'avanconca di comunicazione con il Po. «Logico sarebbe progettare tale canale sboccante in fiume fra la strada così detta del porto a monte o la strada del Sale a valle: ma questa posizione si rivela subito inaccettabile se si osserva che a poco a valle della strada del porto si entra in un ramo secondario di Po fronteggiato da un'isola in formazione, mentre il canale navigabile abbandona la sponda sinistra subito a valle del ponte in ferro per addossarsi alla sponda destra (attualmente in parte protetta e in parte in corso di difesa) a monte del paese di Mezzano Chitantolo...Venendo finalmente al vero porto si deve osservare, in tesi generale, che l'area disponibile se non è insufficiente come superficie, è alquanto sacrificata nella larghezza in vicinanza alal città ,precisamente dove occorrerebbe maggior spazio per piazzali di deposito, calate, tettoie, binari di raccordo, ecc. Il tracciato planimetrico quindi di tale porto dovrebbe essere di forma allungata e trapezzoide, colle banchine fronteggianti Stradone Passeggio e strada del Sale. I raccordi ferroviari non sarebbero molto facili o dovrebbero sempre attraversare lo Stradone di Passeggio».

Il laghetto del porto di Milano prima dell'interramento
Grandi progetti rimasti sulla carta, per dare concretezza alla rinnovata fiducia nelle possibilità di sviluppo dell’economia lombarda fin dall’inizio degli anni ottanta del XIX secolo, a partire dalla forte espansione del comparto industriale tessile. In questi anni, la presa di coscienza delle potenzialità è supportata da tre eventi significativi di natura diversa, come l’Esposizione Nazionale del 1881, l’apertura del traforo ferroviario del San Gottardo nel 1882 e l’inaugurazione della prima centrale elettrica in Italia nel 1883, che confermano la svolta in atto in questo periodo.
A colpire i contemporanei, fu soprattutto il repentino sviluppo dell’industria meccanica, oltre alla forza già affermata del settore tessile grazie ad investimenti e conoscenze provenienti in gran parte dall’estero. Questo afflusso di soldi ed esperienze era dovuto alla posizione di Milano in qualità di cerniera tra il bacino del Mediterraneo ed i paesi di lingua tedesca, valorizzata dalle infrastrutture di recente costruzione, prima tra tutte il traforo del San Gottardo. Il processo di crescita dell’economia lombarda riguardò soprattutto l’area milanese e pedemontana, così i Cremonesi, invece di varcare l’Oceano Atlantico, per trovare lavoro si limitarono a varcare l’Adda, per raggiungere il capoluogo lombardo. Nel primo decennio del XX secolo la crescita proseguì a ritmi serrati; basti pensare alla creazione dei grandi stabilimenti produttivi nell’area di Sesto San Giovanni, nelle immediate vicinanze di Milano, tra cui possiamo citare le Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck, le officine Breda e la Magneti Marelli, il cui insediamento nell’hinterland milanese risale proprio a quel periodo e che rivestiranno un ruolo di prima importanza nel “boom” economico degli anni sessanta. Pertanto, in questa congiuntura economica, ritrovano nuova forza i secolari progetti di collegamento tra Milano ed il mare, soprattutto per l’approvvigionamento di materie prime destinate alle grandi industrie metallurgiche e siderurgiche e per la spedizione di prodotti finiti in grandi volumi, sull’esempio di quello che avveniva nei grandi fiumi dell’Europa centro-settentrionale.
Pertanto, sulla base del progetto del 1917 a Milano si procede alla costituzione di un’Azienda Portuale di Milano, per la realizzazione del porto e del canale di collegamento che avrebbe dovuto raggiungere il fiume Adda, secondo il tracciato Melegnano-Cavenago-Pizzighettone-Foce Adda, per poi raggiungere il Po poco a monte di Cremona. I primi lavori vengono avviati al termine della prima guerra mondiale, senza molta convinzione, soprattutto per dare lavoro al gran numero di persone che tornavano dal fronte dopo la smobilitazione ed erano prive di occupazione. Infatti, negli anni tra il 1919 ed il 1922, l’attività è limitata all’esecuzione degli sbancamenti del porto commerciale e dello scavo di alcuni tronchi di canale per una lunghezza di circa venti chilometri, non contigui, nei territori di San Giuliano Milanese, Lodi, Maleo e Maccastorna. L’inizio dei lavori per la realizzazione del porto e del canale navigabile fino a Cremona furono fortemente voluti da Emilio Caldara, il primo sindaco socialista di Milano, che lasciò anche alcuni scritti sulle opportunità aperte dal collegamento con il mare.
Il sindaco Caldara, avvocato ed autorevole esponente del Partito Socialista Italiano, fondatore dell’ANCI, l’associazione dei Comuni, era nato a Soresina e quindi di origine cremonese; un elemento che forse influì sulla scelta di raggiungere il mare ed il Po attraverso Cremona, in quanto la città ed il suo territorio, fino a quel momento, erano state tagliate fuori dalle grandi vie di comunicazione stradale e ferroviaria. Parallelamente anche Cremona, dove l'amministrazione comunale cittadina è guidata dal sindaco socialista Attilio Botti, nel 1919 e ’20 appronta una banchina portuale in cemento sulla riva del fiume, appena a valle del ponte, sulla base del progetto del 1911, e crea contemporaneamente l’Azienda autonoma Porto di Cremona, per gestirne i traffici. Nel 1922, le mutate condizioni politiche portarono ad una sospensione dei lavori milanesi, mentre il traffico alla Darsena di Porta Ticinese continuava ad aumentare parallelamente allo sviluppo edilizio della città. L'anno dopo uno dei primi atti del nuovo governo è proprio la sospensione dei lavori e lo scioglimento delle aziende portuali di Cremona e Milano.

mercoledì 24 maggio 2017

Aristide Cavalli e l'Officina Monteverdi

Aristide Cavalli

Nell'anno monteverdiano ci piace ricordare la figura di uno straordinario imprenditore che per primo utilizzò il nome del Divin Claudio per dare vita alla prima alla prima fabbrica industriale per la costruzione di violini indicando la strada maestra per la rinascita della grande tradizione della liuteria classica. Aristide Cavalli fu uno dei liutai meno conosciuti che lavorarono a Cremona dopo la morte di Enrico Ceruti, ed una delle figure più interessanti di inizio Novecento. Ricordato soprattutto per le spiccate doti imprenditoriali, nacque a Oneglia nel 1856 da genitori piemontesi, ma le sue origini sono schiettamente cremonesi. Il nonno Giovanni Battista, infatti, gestiva una piccola libreria posta sotto un arco murato della Bertazzola di fianco al Battistero ed addossata al Duomo. Il padre, Savino, aveva frequentato la scuola, preso lezioni di pianoforte e d'organo e nel 1845, una volta conseguito il diploma, per la sua abilità era divenuto organista della Cattedrale. Per le sue simpatie rivoluzionarie e patriottiche a vent'anni, aiutato da amici fidati, si era rifugiato ad Alessandria nel Regno Sabaudo per evitare il servizio militare sotto l'Austria. A 27 anni aveva sposato una ragazza del luogo, Matilde Pagnini, ma, pochi anni dopo la nascita dei due figli, Aristide e Guglielmo, era morto improvvisamente nel 1860 a soli 45 anni. La giovane vedova con la prole era partita in diligenza alla volta di Cremona, accolta nella casa della cognata Costanza Cavalli, in piazza Piccola, il 30 aprile 1861. Dal 1830 al 1859 la libreria Cavalli diventa il ritrovo dei carbonari cremonesi, ed in questo ambiente culturale il giovane Aristide trascorre l'infanzia e, tra libri nuovi, vecchie edizioni e cinquecentine, forgia il proprio carattere, sviluppando notevoli doti artistiche e vivacità intellettuale. Nel frattempo, spinto dalla zia Costanza, frequenta a Vescovato la bottega di Giuseppe Bresciani, un artigiano eclettico, bizzarro e curioso, che, oltre a fare il falegname, a tempo perso realizza anche bellissimi violini. Incuriosito Aristide assimila in breve tempo tutti i rudimenti del mestiere, tanto che Beltrami racconta alla zia che il ragazzo ha innato in sé il senso delle proporzioni e delle esatte misure, dello spessore dei legni, degli amalgami necessari a realizzare le vernici e della sonorità da ottenere con gli strumenti. Divide il suo tempo tra il bizzarro liutaio e la bella libreria di piazza Piccola, fimo a quando nel 1876, a vent'anni sente la necessità di emanciparsi e, seppur con a disposizione un capitale modesto, aprì una piccola libreria in corso Campi. Gli inizi sono difficili, ma la sua competenza professionale e l'onestà intellettuale gli conciliano ben presto le simpatie della città e la piccola libreria, grazie agli amici ed ai conoscenti, diventa ben presto il ritrovo di una vasta ed affezionata clientela. La libreria diventa anche ritrovo di intellettuali, musicisti e cantanti, uno dei più affezionati clienti è Giuseppe Verdi ma vi si possono incontrare anche alcuni celebri scrittori e poeti come il nostro Giovanni Lonati. 
Il magazzino stagionatura dell'Officina Monteverdi
Nel 1880 si rende disponibile una bottega davanti al teatro Ricci e Cavalli e trasferisce la sua attività nella sede più ampia, avviando anche il commercio di spartiti ed articoli musicali ed iniziando nel 1890 l'edizione di un periodico musicale intitolato “Il monitore musicale Claudio Monteverdi” dove pubblica numerose composizioni di giovani autori cremonesi, come i maestri Riva, Bellini e D'Alessandro. Il periodico, distribuito con successo in tutta Italia, si rivela un ottimo veicolo pubblicitario, che gli consente di incrementare la commercializzazione degli strumenti musicali. Arrivano numerose le richieste di ricchi clienti e musicisti che gli chiedono la riparazione dei loro strumenti ad arco. Di conseguenza amplia ulteriormente la propria attività aprendo nel retrobottega del negozio un piccolo laboratorio attrezzato per la riparazione degli strumenti ed assume personale qualificato, tra cui il suo vecchio maestro Giuseppe Beltrami, esperto in violini ed organi da chiesa, il liutaio Pietro Grulli, per il quale scrisse l' omelia letta al funerale di quest'ultimo nel 1898, i fratelli Romedio e Palmiro Munchen. Nel frattempo Cavalli conosce Giovanni Francesco Poli, figlio del notaio Michele Achille e di Francesca Feraboli, studente del Politecnico di Tornio, dove si laurea ingegnere nel 1893. L'ingegnere Gian Francesco Poli, a sua volta, suona il violino ed il mandolino, ed è l'anima ed il direttore del nucleo originario di musicisti da cui sarebbe nato qualche anno dopo, nel 1897, il Circolo mandolinisti e mandoliniste cremonesi”. Compone canzoni, operette, organizza spettacoli musicali e di prosa nel vecchio Teatro Alfieri di via Villa Glori, e suona discretamente molti strumenti. Nonostante Poli sia di undici anni più giovani, tra i due nasce una solida e profonda amicizia. Hanno in comune molte cose: la passione per i violini, la musica, il canto, ma soprattutto tanto entusiasmo e voglia di lavorare.
Nel 1895 Cavalli decise di ampliare ulteriormente il suo piccolo laboratorio e, con l'amico musicista apre una piccola fabbrica nell'ex teatro Alfieri di via Villa Glori dove inizia a costruire chitarre e mandolini. Viene scelto con cura il simbolo della nuova azienda con “due cavalli attraverso un globo terrestre di cui non si vendono che i poli”. Dal sodalizio tra i due sarebbero nate la “Cavalli & Poli” e l'Officina di liuteria artistica Claudio Monteverdi, che di fatto rappresenta l'unico tentativo di far rinascere la celebre scuola cremonese, pur adattandola alle mutate condizioni del mercato.
Per quanto riguarda la prima inizialmente la partenza è scoppiettante, ma dopo tre anni la concorrenza dell'artigianato napoletano e catanese divenne insostenibile, fino alla capitolazione dell'azienda, che, per evitare il licenziamento degli operai, viene riconvertita dalla costruzione di casse armoniche a quella della casse da imballaggio. Si fabbricano inoltre imbarcazioni da fiume, da corsa e da diporto, ghiacciaie per uso familiare e per alberghi, apparecchi per fare il ghiaccio. Su un'area fuori città, prospiciente la stazione ferroviaria, viene realizzata la segheria. Cavalli si occupa di reperire i pioppi da abbattere nelle campagne e Poli viaggia alla ricerca di nuovi clienti. Gli affari prosperavano e nel 1908 è necessario ampliare l'area, trasformando la società da privata in società anonima, immettendo nuovi soci. Prende così vita la terza edizione della “Cavalli & Poli”, con l'aggiunta di un reparto per la produzione di aste dorate che, affidato a Gino Usuelli, si trasforma nella più importante industria nazionale del settore.
La sala per il collaudo degli strumenti
L'Officina di liuteria artistica Claudio Monteverdi è invece quella che rispecchia più fedelmente il complesso temperamento di Aristide Cavalli. L'obiettivo sembra essere quello di emulare la produzione quasi industriale delle grandi botteghe di Mirecourt e di Mittenwald. Cavalli e Poli possiedono un certo numero di etichette compreso "Giovanni Maria Ceruti", la qual cosa in tempi recenti ha creato qualche confusione sulla questione se questo mitico liutaio fosse parente dei più famosi Ceruti. La fabbrica produce violini, chitarre e casse armoniche e al suo interno muove i primi passi Romedio Mucher, che successivamente si mette in proprio attrezzando un laboratorio nella sua abitazione in via XI Febbraio n. 20 e successivamente in via Gorizia n. 2. Varie circostanze probabilmente contribuiscono a sviluppare in Cavalli la passione per la liuteria. Fin da giovane, grazie alla sua attività di librario, ha certamente potuto conoscere la vasta letteratura sull'argomento e, attraverso la conoscenza di qualcuno dei liutai rimasti a Cremona, ha potuto apprendere i primi rudimenti sulla costruzione del violino. Non ama fantasticare sui presunti segreti stradivariani nella preparazione delle vernici, ma preferisce confrontarsi, discutere, lavorare e sperimentare soluzione con i propri dipendenti, formandone dei buoni liutai. Una volta assicuratasi una discreta posizione economica grazie all'altra attività, non esita a riversare il ricavato nel tentativo di industrializzare la realizzazione del violino artigianale. Vari tentativi a livello nazionale sono già falliti, ma Cavalli ha dalla sua il vantaggio di possedere una elevata competenza tecnica abbinata alla conoscenza del mercato, grande passione e spirito imprenditoriale. A chi gli rimprovera di aver creato un'industria ma di aver ucciso l'arte, risponde: “Dobbiamo convincerci che il tipo tradizionale del liutaio cremonese, vale a dire di un ottimo artigiano che lavora tranquillamente e accuratamente nella propria botteguccia, sicuro di trarre da un onesto lavoro il sostentamento per sé e èer la propria famiglia, è definitivamente morto. Due fattori lo hanno eliminato: il commerciante di violini vecchi, astuto, chiaccherone e alle volte poco scrupoloso, e l'industria famigliare e dozzinale di Mittenwald, Markmeukirchen e Mirecourt potentemente organizzata dal lato commerciale. Il primo ha posto il monopolio sull'alta clientela: il violinista 'arrivato', il grande concertista che non può presentarsi al pubblico se non 'armato' di un autentico Stradivari, al suonatore di fila che, a torto o ragione, preferisce un violino vecchio a quello nuovo. La seconda rifornisce la vasta clientela degli allievi che, nell'incertezza della riuscita, preferiscono economizzare sul violino da studio. Per conseguenza, al valente liutaio non resta che vivacchiare di qualche riparazione o costruire qualche strumento, in attesa del cliente che difficilmente si presenta. Ora per noi cremonesi il dilemma è semplice: restar morti o adattarsi alle condizioni dell'attuale mercato”. (Vittorio Grandi, Aristide Cavalli, necrologio in “Cremona”, febbraio 1931)
Sorretto da queste idee Cavalli si dedica ad una produzione del tutto originale che, non rinunciando alla buona qualità dello strumento, sfrutta un'organizzazione tipicamente industriale utilizzando entro certi limiti i moderni metodi di lavorazione che garantiscano violini notevolmente più economici ma tuttavia in grado di affrontare le concorrenza della produzione tedesca e francese del tempo. Si tratta, ovviamente, in gran parte di una produzione seriale dove ogni addetto realizza singole parti dello strumento che poi vengono assemblate. Non si può tuttavia parlare di produzione industriale in senso stretto, dal momento che l'obiettivo di Cavalli è quello di ottenere strumenti che abbiano la stessa resa di quelli artigianali, ma con un maggiore risparmio di tempo. Il lavoro non è organizzato su linee di montaggio, né meccanizzato: l'artigiano specializzato realizza in pratica tutte le operazioni più importanti, dall'intaglio, al montaggio ed alla verniciatura, delegando solamente alcune piccole operazioni accessorie a personale meno qualificato.
Un violino di Aristide Cavalli
Quando Cavalli si spegne improvvisamente per un ictus cerebrale il 16 gennaio 1931 l'attività viene portata avanti dal figlio Lelio, laureato in fisica che, durante la guerra 1915-18, si è dedicato, in uno speciale reparto dell'azienda familiare, alla costruzione di ali di aeroplano. Lelio è una delle figure più importanti per la nascita della scuola internazionale di liuteria nel 1938. Dalla prima sede nei pressi di palazzo Trecchi in via Villa Glori, l'Officina viene in seguito trasferita in via Dante e infine in via del Castello fino al 1945, quando viene definitivamente chiusa.
Nei laboratori venivano realizzati cinque modelli di violini: il Ceruti, per il quale si era riusciti ad ottenere un'ottima resa acustica; lo Stradivari, il Guarneri del Ges, Il Tresenda ed il Beltrami bombato, oltre chitarre e mandolini, Venivano eseguiti severi controlli ed i violini che non superavano la prova venivano distrutti, mentre non è raro che quelli immessi sul mercato abbiano ottenuto anche elevate quotazioni. Lelio Cavalli era amante della musica, buon violinista e pianista, studioso di fisica acustica, e cultore di Claudio Monteverdi e della liuteria classica. Fu uno dei più appassionati e competenti fra gli organizzatori delle manifestazioni per il bicentenario della morte di Stradivari nel 1937 e insegnante nella neonata scuola di liuteria dal 1949 al 1952. 

lunedì 15 maggio 2017

Il giallo del violetto

Johann Reiter nel suo laboratorio di Mittenwald

Johann Reiter è stato tra i principali artisti della scuola liutaria di Mittenwald. È nato nel 1879 ed è stato uno dei pochi artigiani nella sua città natale che non fosse alle dipendenze di fabbriche più grandi. Ereditò lo stile da suo padre, Johann Baptist Reiter (1834-1899), un altro grande nome nella tradizione di Mittenwald, che, a sua volta, era stato allievo e discepolo del leggendario Jean Vauchel (1782-1856). Johann Reiter non è stato solo un brillante liutaio, ma anche un fine ricercatore, un polistrumentista e un artista propenso alle sperimentazioni a cui è attribuita la realizzazione di strumenti originali come il violino ottavo e la viola pomposa. Ma non è così. Nel 1936 il sommo maestro bavarese fu al centro di una polemica proprio per essersi attribuito l'invenzione di uno strumento a lungo vagheggiato, che già Johann Sebastian Bach aveva tentato di realizzare, ma in realtà costruito qualche anno prima da un abile liutaio di Casalbuttano, Luigi Digiuni. Lo strumento venne battezzato “violetto”, e in realtà riprendeva le idee formulate qualche secolo prima da Bach a proposito della viola pomposa e del “violoncello piccolo”. La polemica tra il liutaio tedesco e l'artigiano cremonese, alla vigilia delle celebrazioni stradivariane del 1937, non trovò spazio sugli organi di stampa cittadini, “Regime fascista” e la rivista “Cremona” entrambi soggetti allo scrupoloso controllo di Roberto Farinacci che, in quegli anni, stava tessendo una fitta rete di relazioni con la Germania di Hitler e non avrebbe avuto alcuna intenzione di inimicarsi il potente alleato tedesco con un problema di progenitura proprio in tema liutario. Se ne trova invece notizia in un gruppo di quotidiani italiani pubblicati tra il 7 ed il 21 settembre del 1936: la Gazzetta del Popolo e Stampa Sera di Torino, il Popolo d'Italia di Milano, il Popolo di Roma e qualche altro. E questo ha permesso di rendere giustizia al liutaio cremonese che, negli anni più oscuri della nostra tradizione liutaria, cercava di tenere alta la fama dei grandi maestri. Un episodio ed una figura di cui già ai quei tempi ci si sarebbe facilmente dimenticati, se non fosse stato per quella disputa che trovò spazio sui giornali nazionali e che, dopo la morte di Digiuni avvenuta l'anno successivo, permise di attribuirgli il giusto riconoscimento postumo nelle manifestazioni dedicate al sommo dei liutai.
Il violetto di Digiuni
al Museo del Violino
Così spiega la questione “Stampa Sera” in un articolo del 7 settembre: “In questi giorni molti quotidiani hanno pubblicato la notizia che il liutaio bavarese Giovanni Reiter, allievo di Mathias Klotz, ha testè brevettato in Germania un nuovo strumento ad arco, intermedio tra la viola e il violoncello, strumento che già Sebastiano Bach aveva tentato di ottenere con la 'viola pomposa'. Esso rende una voce di tenore che fino ad ora mancava nei quartetti ad archi e permette di prendere le parti dei violoncelli e dei bassi nelle orchestre di sala. Orbene, l'Italia può rivendicare a sé il diritto di precedenza in questa, chiamiamola così, invenzione per merito di un artigiano liutaio cremonese, Luigi Digiuni, che ideò e costrusse uno strumento del genere nel 1922, lo battezzò 'violetto' e lo presentò nel 1923 alla esposizione interprovinciale delle industrie artistiche tenuta in quell'anno a Cremona. In quella circostanza si tenne pure un concerto di strumenti ad archi e il 'violetto' venne suonato da esimii professionisti che lo lodarono. Senonchè la cosa morì lì. Il Digiuni, cedendo alle pressioni di conoscenti, fece poi brevettare lo strumento ed egli è in possesso di regolare 'attestato di privativa industriale' dell'allora Ministero dell'Economia Nazionale n. 230.533, in data 19 settembre 1924. mentre la sua domanda coi documenti di legge venne depositata alla Prefettura di Cremona il 10 maggio 1924, alle ore quattordici. Il brevetto dello strumento porta la denominazione 'nuovo tipo di strumento musicale a corde, violino basso sistema Digiuni'. Di tale strumento il Digiuni ne ha costruiti tre esemplari, poi la sopravvenuta crisi mondiale e la scarsa ricerca di strumenti lo indussero a non farne più. Di essi uno è stato venduto e due sono ancora visibili presso di lui. Tale strumento che si suona a spalla come il violino, ha la cassa lunga 40 centimetri e le larghezze massime delle due parti arrotondate sono cm. 20,7 la superiore e cm. 27,2 l'inferiore. Le fascie sono alte nella parte superiore cm. 4 e nella inferiore cm. 4,3. Anche il 'violetto' del Digiuni è uno strumento intermedio fra la viola e il violoncello, la cui voce è di timbro gradevolissimo; la sua corda più bassa corrisponde alla terza corda del violoncello, perciò in confronto del violoncello manca solo del do basso. Il Digiuni si indusse a studiare e a costruire tale strumento nel 1922, dopo aver letto in un volumetto di liuteria che nei secoli scorsi era stato costruito uno strumento a gamba più piccolo del violoncello ma di voce più dolce e più potente di quella della viola. Egli pensò di farne uno simile ma a braccio e sua prima idea era di suonarlo lui stesso, essendo egli buon suonatore di violino”.
Uno dei tre esemplari del violetto, già facente parte della collezione del Museo stradivariano, è conservato oggi al Museo del Violino di Cremona.

Il museo della liuteria a Mittenwald
Per trovare un antecedente del violetto del Digiuni, bisogna tornare indietro di un paio di secoli. Viole da braccio di voce intermedia fra la viola contralto e il bassetto (poi Violoncello) voce di baritono erano  in realtà esistiti anche in epoca "classica". Di Stradivari esiste ancora intatta la viola tenore "Medicea", costruita nel 1690 per il granduca di Firenze, che ha le seguenti misure: lunghezza corpo 47.8 cm, larghezza corpo superiore 21.9 cm, larghezza del corpo inferiore 27.2 cm, e qualche altro esemplare ridotto in seguito nelle dimensioni per farlo diventare "contralto", naturalmente per ragioni di mercato.
Secondo testimonianze dell’epoca Bach avrebbe poi convinto il liutaio Johann Christian Hoffmann a costruire uno strumento che avesse contemporaneamente la qualità del violino tenore suonato a braccio secondo l’antica tradizione (‘Fagottgeige’, ‘viola da spalla’) e le caratteristiche del violoncello, dal suono più evoluto. I contemporanei ed i biografi di Bach, per indicare tale strumento basso suonato a braccio, hanno coniato il nome di ‘viola pomposa’, che sarebbe stata realizzata dopo il 1730. Vi è però un altro strumento a cui Digiuni sicuramente pensava quando realizzò il suo violetto. Delle sei suites per violoncello solo le prime cinque sono state scritte per lo strumento che noi conosciamo. La sesta è destinata ad uno strumento a cinque corde di incerta identificazione che viene accordato come il violoncello ma con una corda di mi acuto in più che gli permette di comprendere il registro del violoncello, che costituisce il basso della famiglia del violino, e quello del tenore della famiglia, strumento scomparso alla fine del XVII secolo. E' possibile che questo strumento concepito per suonare la sesta suites sia il violoncello piccolo che Bach peraltro utilizza in nove cantate a partire dall'ottobre del 1724. I musicologi sostengono che non si può suonare la sesta suite con gli esemplari di viola pomposa oggi conosciuti, strumento che Heinrich Husmann nel 1936 ha suggerito di identificare con il violoncello piccolo. Se così fosse, però, bisognerebbe pensare ad un altro strumento ancora che assomigliava al normale violoncello, con una corda in più e decisamente più piccolo per evitare che la corda aggiunta, più acuta, potesse spezzarsi se sottoposta ad una tensione troppo forte. Per Curt Sachs Bach non avrebbe inventato la viola pomposa, in quanto non esisterebbero composizioni scritte per questo strumento. Qualche violoncello piccolo del XVIII secolo è sopravvissuto, ma lo strumento si estinse negli anni successivi alla morte di Bach. Alcuni finirono per essere rimodellati con manici più piccoli per farne strumenti destinati ai bambini. Uno è conservato in un museo di Bruxelles, un altro costruito da Hoffman è andato perduto durante la Seconda Guerra Mondiale, un altro ancora è riapparso intorno ai primi anni del secondo millennio in Sudafrica. C'è però un liutaio moderno che ha cercato di far rivivere lo strumento perduto: è un emigrato russo che ha il proprio laboratorio a Bruxelles, Dmitry Badiarov, che venne a Cremona un paio d'anni fa. Confuso spesso con il violocello piccolo è stato anche il violoncino, usato tra il 1580 ed il 1750 , che assolveva al ruolo da tenore e poteva avere quattro o cinque corde.

Luigi Digiuni (foto Archivio della Liuteria Cremonese)
Luigi Digiuni era un liutaio autodidatta, nato a Casalbuttano nel 1878 e trasferitosi poi a Cremona. Seguiva un modello personale di buona tonalità e con vernice di rilievo. Si dedicò alla costruzione di violini, viole, chitarre e contrabbassi e con Remedeo Muncher, Carlo Bonetti, Ugo Gualazzini e Renzo Bacchetta si prodigò per la nascita della Scuola di Liuteria che, però, non riuscì a vedere realizzata, in quanto morì nel 1937, proprio alla vigilia delle celebrazioni stradivariane. Ma a dargli notorietà è stata proprio la realizzazione del “violetto”, esposto postumo nel corso della mostra di liuteria contemporanea del bicentenario stradivariano. Nei primi anni del Novecento Digiuni è rimasto a difendere la tradizione liutaria cremonese, seppur dal punto di vista artistico molto lontana dai grandi del passato, con un piccolo gruppo di artigiani di buona levatura: Pietro Grulli, Giuseppe Beltrami, Carlo Bosi, Remedeo Muncher, Lorenzo Marconi e Carlo Schiavi.
Johan Reiter era invece figlio d'arte e negli anni Trenta rappresentava la punta di diamante della scuola di Mittenwald, fondata da Ludwig I nel 1858, ma in realtà erede di una tradizione che risale a Mathias Klotz, allievo di Nicola Amati. Nel XVI e XVII secolo Mittenwald aveva vissuto una vera e propria età dell'oro grazie agli scambi commerciali di Venezia, ai banchieri Fugger di Augsburg e ai mercanti di Nurnberg che ne avevano fatto il centro dei loro traffici. Quando i mercanti veneziani decisero di spostare il loro mercato a Bolzano, la città ne ricevette un colpo mortale. La tradizione vuole che in quegli anni, nel 1684, un giovane chiamato Mathias Klotz, decise lasciare la città per andare all'estero a far fortuna. Dopo aver attraversato le Alpi arrivò a Cremona, alla ricerca di quel lavoro che non riusciva a trovare nel suo villaggio bavarese, ormai in rovina.
Cremona era allora famosa in tutto il mondo per i suoi violini già apprezzati in Francia, Germania e Inghilterra. Il giovane Klotz camminava per le strade di Cremona, quando improvvisamente sentì una musica proveniente da uno strumento che non aveva mai sentito prima. Entrò in una piccola bottega ingombra di violini, liuti e lire. Un vecchio gli chiese cosa voleva. Klotz disse che stava cercando un lavoro e, con sua sorpresa, venne assunto come apprendista. Il vecchio era Nicola Amati, il grande maestro che alle proprie dipendenze aveva anche Antonio Stradivari, e sotto di lui Klotz apprese i segreti del violino, segreti che poi lui riprese a Mittenwald anni dopo quando aprì la propria bottega, divenuta ben presto un rinomato centro di produzione, grazie anche alla facilità di reperimento delle materie prime nelle foreste poste nelle vicinanze della città. La bottega di Reiter, in un edificio antico della città a poca distanza dal museo ricavato nell'originaria bottega di Klotz al No. 3 di Obermarkt, negli anni Trenta era ormai attiva da circa duecento anni.